I Barabba sono band partenopea rockabilly composta da Riccardo De Filippis (voce e semi batteria) , Antonio Barberio (contrabbasso) e Salvatore Traversa (chitarra): lo scorso 12 ottobre è uscito il loro album d’esordio “Barabba e burattini“. Per l’occasione noi di Tutti giù Parterre abbiamo incontrato il frontman Riccardo, con il quale abbiamo abbiamo scambiato una piacevole chiacchierata presso la suggestiva location dell’ “A’ Mbasciata“, associazione culturale situata in pieno centro storico a Napoli.
Ciao Riccardo, benvenuto su Tutti giù Parterre! ”Chi volete che vi rilasci, Gesù o i Barabba?!”, esclamò Ponzio Pilato. È proprio a questa celebre frase che dovete la scelta del vostro nome?
Beh diciamo di sì, inizialmente eravamo in quattro, ci chiamavamo Burning Billy e facevamo musica di strada, dapprima a Napoli poi anche in altre parti d’Italia. Siccome sembravamo dei “ladroni” e le nostre attrezzature erano alquanto obsolete, una sera mi venne l’idea di dare al nostro gruppo un nome che potesse essere ricordato in maniera piuttosto semplice, infatti Barabba è una figura conosciuta a livello internazionale, dunque ci siamo serviti di questo nome per marchiare il nostro sangue. Abbiamo cominciato a suonare quasi sette anni fa, poi pian piano il nostro nome è iniziato a girare nella scena partenopea, abbiamo iniziato a frequentare i primi locali e a farci conoscere nell’underground napoletano. Oggigiorno non è semplice suonare in un locale, non solo per una questione economica ma anche per una questione legislativa (ad esempio ad un certo orario bisogna smettere di suonare). Noi però non ci siamo mai fermati e adesso stiamo iniziando a notare che qualcosa si sta muovendo.
Parliamo un po’ della vostra esistenza: come vi siete conosciuti ed in che modo vi siete avvicinati alla musica? Attualmente chi sono i Barabba nella vita quotidiana?
Io sono Riccardo De Filippis, classe ’90, laureato alla triennale in biologia e sto per specializzarmi in biotecnologie mediche, anche se ho deciso di dedicarmi alla musica. Artisticamente nasco pianista, ho cominciato da autodidatta studiando i brani dei Queen e dei Beatles, ma un po’ per esigenza e un po’ per piacere ho iniziato a suonare la batteria, o meglio la semi-batteria, prendendo così il posto del nostro primo batterista, il quale aveva una vena un po’ più punk: il set composto da rullante, grancassa e piatto è quello utilizzato da Slim Jim Phantom, semi-batterista della band che mi ha maggiormente segnato a livello musicale – gli Stray Cats – di cui mi sono anche tatuato il logo sul braccio. Antonio Barberio è il nostro contrabbassista, ci conosciamo sin dai tempi delle scuole superiori, suoniamo insieme da quasi quattordici anni e ci frequentiamo anche al di fuori della musica. Antonio è ingegnere elettronico, tecnico del suono e ha seguito anche un corso di liuteria, infatti si diverte a riparare e costruire strumenti, me ne ha regalati un bel po’ tra cui un’arpa. Salvatore “Toto” Traversa, invece, è un chitarrista puro, classe ’94, ogni giorno sperimenta e ricerca nuovi suoni e il suo idolo è il chitarrista degli Stray Cats Brian Setzer, il quale sponsorizza la marca di chitarra semi-acustica Gretsch molto conosciuta nel rockabilly anni ’50 ed utilizzata anche da Elvis.
Con quali riferimenti musicali siete cresciuti? C’è un album in particolare che più vi ha influenzato nella decisione di intraprendere la carriera artistica?
Per quanto mi riguarda, gli album che mi hanno influenzato maggiormente sono “Blast Off!” degli Stray Cats, “Separate Ways” e “That’s all right (Mama)” di Elvis Presley, di quest’ultimo in particolar modo mi hanno colpito la pulizia e la semplicità del suono associati alla sua voce, rendendolo trasversale a qualsiasi genere, fondendo billy, gospel e blues. Salvatore, invece, si può dire che sia cresciuto a pane e Pino Daniele (ma anche Stevie Ray Vaughan, B.B. King, Eric Clapton e Stevie Wonder), ha il blues nel sangue e solo dopo averci conosciuto si è avvicinato al rockabilly ed in particolare a Brian Setzer. Infine, Antonio nasce come contrabbassista metal, ma col tempo si è dato al rockabilly puro, imparando molto bene la tecnica dello slap.
“Barabba e burattini” è l’album che segna il vostro esordio ed è quasi totalmente autoprodotto. Quanto è complicato fare musica a livello indipendente?
A mio parere è complicatissimo, anzitutto una volta realizzato un lavoro discografico, decidi di presentarlo ad una casa discografica, ma quasi nessuna di queste è disposta ad ascoltare la tua musica, perché ci sono tantissime richieste e ormai i loro incassi non son più quelli di una volta, quindi un solo contenuto musicale non è più sufficiente, serve un format di spettacolo e una serie di contorni che possano far quadrare i conti di un’etichetta. Inoltre loro preferiscono collaborare insieme a te nel lavoro di produzione e non accettano lavori già pronti, invece noi Barabba vogliamo essere quanto più autentici è possibile. La produzione di “Barabba e burattini” è stata affidata ai ragazzi dell’ “A’ Mbasciata”, i quali ci hanno concesso questa splendida location di Palazzo Venezia per la presentazione del disco e per me è stata davvero soddisfacente, un’emozione paragonabile quasi alla laurea. Il nostro primo lavoro è un album di dieci brani, cosa piuttosto obsoleta perché oggigiorno si preferisce pubblicare un EP di massimo quattro o cinque pezzi, volevamo sfornare un lavoro old style ma con dei suoni nuovi, registrato al Tuscià Recording Studio.
“Ti penso ma non ti cerco” richiama un po’ il famigerato proverbio “In amore vince chi fugge”. Cosa ne pensate di questa tipologia di strategia in amore?
È una strategia tristemente funzionante nei casi di una relazione che, seppur forte, prima o poi tenderà e terminare, a mio parere non funziona nel momento in cui trovi la donna giusta. Il testo del brano riprende una poesia di Bukowski, il nostro chitarrista Salvatore ha avuto l’idea di musicarla. Questo pezzo piace molto, anche se le prime volte in cui lo suonavamo non ero totalmente convinto della sua potenza.
Nei vostri testi alternate tre lingue, l’Italiano, l’Inglese ed il napoletano. Secondo voi quanto è importante la scelta del linguaggio nelle canzoni al giorno d’oggi?
Conta tantissimo! All’inizio scrivevamo esclusivamente in inglese, ma nella lingua madre puoi esprimerti sicuramente meglio. Proporre un mix alla Paolo Conte, come ad esempio in “It’s wonderful”, in cui presenti frasi in lingue diverse è non solo interessante, ma peraltro anche divertente. Comunicare soltanto in inglese ti porta a creare una nicchia molto più limitata, invece con l’italiano e con il dialetto napoletano arrivi a molte più persone, perché sono due tipologie di linguaggio che la gente mastica ogni giorno.
Avete coverizzato alla vostra maniera “Paracetamolo” di Calcutta, uno dei pionieri della nuova scena indipendente. Qual è il vostro pensiero in merito all’esplosione di questo “genere”?
Anzitutto ancora non ho ben compreso cosa sia l’indie, sicuramente sta per musica indipendente, magari se ci si sofferma sul suono una costante può essere rappresentata dai toni di voce, oppure agli argomenti solitamente trattati nei brani, spesso quasi astratti, il tema principale è il disagio, sociale e affettivo, l’amore è il motore di tutto. Tra i giovani, quindi, va per la maggiore il brano cantilenante ed orecchiabile, ad esempio il piano di “Paracetamolo” è estremamente semplice, ma allo stesso tempo funziona eccome. A me Calcutta piace tanto, probabilmente non saprei neanche dirti il perché, scrive in totale autonomia, si autoproduce e riempie i palazzetti con brani piuttosto accessibili, nati semplicemente con una chitarra e una tastierina. Così abbiamo deciso di reinterpretarla in chiave rockabilly, ci siamo divertiti parecchio a sperimentare un brano così lontano dal nostro genere e a riproporlo con il nostro sound. Abbiamo preso spunto anche dai talent show, in cui spesso viene richiesto di trasformare brani di un certo genere in una nuova chiave. Lo scorso anno partecipammo alle audizioni di X Factor, purtroppo non ci hanno richiamati, ma è stata un’esperienza sicuramente formativa. Non ti nascondo che in futuro magari ci riproveremo, il talent costituisce un potente mezzo per farsi conoscere al grande pubblico, magari oltre alla musica, che in alcuni tratti può andare in secondo piano, entrano in gioco altre componenti, come la coreografia, l’abbigliamento ecc. Il talent che preferiamo è certamente X Factor, è quello meglio strutturato e ha sfornato diversi artisti in gamba, come ad esempio i Maneskin.
Ultimamente c’è grande fermento nella cosiddetta scena napoletana. C’è un artista o un gruppo partenopeo in particolare con il quale vorreste collaborare?
Ce n’è più di uno, personalmente mi piacerebbe tanto collaborare con Raffaele Giglio, ex frontman dei Gentlemen’s Agreement. Il suo progetto attuale da solista credo sia meraviglioso, Raffaele non è semplicemente un musicista, ma un vero e proprio cantastorie, peraltro si definisce anche un fischiettatore professionista. Un altro duo con cui vorrei lavorare sono Fede ‘N’ Marlen, mi piace un sacco il loro sound, sono veramente complete, così come anche gli Ars Nova, i quali propongono musica classica popolare napoletana, con il loro violinista Michelangelo Nusco ho già avuto modo di lavorare, ma mi piacerebbe fare qualcosina di più. Poi mi interesserebbe collaborare anche con Pepp-Oh, che con il rap e l’hip-hop ha dato vita ad un bel movimento, inizialmente faceva blues, poi con “Chesta notte” si è affermato ed è arrivato non solo agli estimatori del suo genere. Infine, vorrei lavorare con i Bone Machine, trio rockabilly e psychobilly di Aprilia, la loro etichetta indipendente è la Billy’s Bones e d è di proprietà del chitarrista e cantante della band Jack Cortese.
Essendo partenopei non posso non domandartelo: l’ultima traccia s’intitola “Non mi piace il caffè”, ma realmente non lo gradisci? E tra il kebab e la pizza quale preferisci?
Ci tengo a precisare che adoro il caffè e purtroppo ne prendo anche tanti, però ci sono alcuni momenti in cui non mi attira, come ogni cosa esiste una curva dose-effetto, se aumenti la quantità non riesci più ad apprezzarne gli effetti. Il brano è nato al pianoforte, poi lo abbiamo arricchito con trombe e sassofoni ed è stato un enorme piacere confrontarsi con musicisti importanti, del resto la musica vive di questo. Tra pizza e kebab scelgo ovviamente la prima, per me è qualcosa di maniacale. “Fammi un kebab” è nata diversi anni fa, la prima parte la canticchiavo tra me e me in quei momenti di confusione mentale, quasi come un tipo di scioglilingua. Dopodiché ascoltai un brano dei Queen intitolato “Don’t try suicide” che all’inizio aveva una melodia molto piacevole con alcuni cori ed il solo Freddie Mercury a cantare e schioccare le dita, così ho pensato di riprodurla in italiano. Il videoclip, tra l’altro, è stato girato proprio a due passi dall’ “A’ Mbasciata”, Mario Kebab a via San Sebastiano ci ha dato una mano, ci ha permesso di fare delle riprese.
Siamo giunti al termine di questa piacevole chiacchierata! Vi saluto chiedendovi del futuro: cosa volete fare da grandi? Avete un obiettivo preciso nel vostro mirino?
Da grandi vogliamo fare musica a livello professionistico, perfezionarci a livello tecnico ed umano e soprattutto imparare a mantenere sempre meglio il palco, cosa che si ottiene con l’esperienza. A novembre partiamo con un tour, al momento abbiamo ufficializzato quattro date, altre sono in fase di progettazione per dicembre. In futuro speriamo di poterci esibire in Europa: il mio sogno è quello di suonare allo “PsychoMania Rumble”, festival psychobilly organizzato a Potsdam in Germania in cui hanno suonato i Meteors e gli Stray Cats. Accorrono persone da tutte le parti del Mondo per ascoltare il rockabilly e lo psychobilly e per noi sarebbe una gran bella soddisfazione, indipendentemente dai soldi: nella musica occorre fare una grande gavetta, però l’importante è credere nei propri obiettivi e nelle proprie potenzialità.
Grazie Riccardo e in bocca al lupo per tutto!
Grazie a te e all’ “A’ Mbasciata” che ci ha ospitato e un saluto ai lettori di Tutti giù Parterre!
Intervista a cura di Lorenzo Scuotto
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