Calcutta live a Rock in Roma il 27 giugno è stato vero amore.
Live report a cura di Giorgia Groccia
A volte non servono parole, a volte basta prestare il proprio ascolto più sincero, abbandonando se stessi tra le braccia di qualcosa che va ben oltre la razionalità, senza porsi troppe domande.
Parlare oggi di rivoluzione non significa costringersi verso la politica, la lotta di classe, le turbolenze e le chitarre rock. La rivoluzione oggi parte dal basso, dalla riscoperta delle piccole cose che spesso e stupidamente dimentichiamo possano esistere a causa dell’alienante iper comunicazione odierna, a causa del mondo che corre sempre più veloce e noi dobbiamo stargli dietro, necessariamente aggiungerei; è proprio quel “necessariamente” a soccombere nella musica di Calcutta: non esiste altra necessità se non quella di rispettare i propri tempi, le proprie esigenze d’espressione, il proprio universo lessicale, i non detti che, molto spesso, hanno tanto fascino in più rispetto al desiderio di doversi spiegare e dover spiegare ogni meandro buio del nostro microcosmo.
Le bellissime animazioni che fissano il parterre riportano, per ogni brano eseguito, un valore aggiunto ad un live che raccoglie la propria energia dal baricentro dell’artista stesso, perfetto in full band, perfetto in acustico, accompagnato dal coro, o semplicemente come unica voce, tanto piena, da rimbalzare su ogni spazio possibile durante la notte romana all’ombra dell’Ippodromo Capannelle.
“Ti ricordi, andavamo a passeggiare nei ricordi…” Calcutta rompe in due il silenzio, iniziando il live con uno dei brani più emotivi e metaforici dell’album Evergreen. Si procede con Kiwi e Orgasmo, si innalza un coro: “tanto tutte le strade mi portano alle tue mutande”, e resta fermo lì, in quel preciso sprazzo, uno dei momenti di massima forza del cantautore; la poetica del reale, l’utilizzo delle parole intrise della loro stessa semplicità poste nell’ordine giusto, al momento giusto, diventano così un disegno realizzato da un bambino, uno di quei disegni che, a guardarli, hanno motivo di essere e non potrebbero esistere altrimenti, sotto altra forma.
Si passa a Cane, uno dei brani più datati, per poi intonare Se tu non torni di Miguel Bosè.
Successivamente Milano; questo brano ha l’estrema capacità di raccontare una città per immagini, descritta attraverso un lessico che picchia forte in pancia. Ogni parola rimbomba come fosse una carezza accompagnata da uno schiaffo. Il retrogusto dolce amaro si assapora gradualmente: sin dalle prime note l’artista ha un bellissimo nodo in gola sciolto esclusivamente nel climax finale.
Se la malinconia avesse un volto probabilmente sarebbe quello di Limonata: il pubblico, con le dita puntate al cielo s’innamora, cullato da quella dolce maretta solitamente così difficile da dipingere ma così immediata da descrivere per un artista nudo e crudo come Calcutta. Si passa da Paracetamolo, a Rai, Albero, Amarena e Nuda Nudissima. Continuano a scorrere sui maxischermo illustrazioni animate, fotografie, videoclip dal retrogusto vintage, e, al contempo, immagini in presa diretta del parterre e del palco, con accurati zoom sui volti di ognuno.
Si prosegue con Cosa Mi Manchi a Fare che nel 2015 consacrò l’artista grazie alla presenza fondamentale di Linus il quale, sapientemente, trasmise il brano rendendolo in pochissimo tempo decisamente popolare ma, a mio gusto e parere, mai pop. Difatti questa canzone ha determinato un anello di congiunzione con ciò che la discografia indipendente continua a vivere oggi, ma soprattutto un un punto di rottura verso ciò che era stato prima. Cosa mi manchi a fare, insieme a Frosinone, Del Verde e Gaetano sono il manifesto di una generazione che ha sentito la necessità di spogliarsi dagli orpelli fastidiosi che esistevano in precedenza, dalle canzoncine patinate, dalla terminologia circoscritta entro gli stessi vocaboli, gli stessi fraseggi, le stesse figure retoriche.
Scorrono rapide e gustose Oroscopo in versione rivisitata, Del Verde, Sorriso – ultimo fortunatissimo singolo fuori da poche settimane- Arbre Magique e Hubner, un brano costruito tramite la storia del noto calciatore che “non lasciò a casa mai sua moglie a consumar le unghie”. Si prosegue con Barche in acustico e Due Punti, fuori da poco, accostata ad un video stile amateur che racconta tanto e nulla al tempo stesso. La frase: “Ma perché tu non sei fuori ad ogni porta che apro per uscire io questo non lo so” è esattamente la chiave di lettura dell’intero brano. I due punti, tra i segni di interpunzione, sono i più bistrattati, quasi in disuso, dimenticati dai più, ormai considerati obsoleti; eppure sono quelli che nascondono un’innata poesia verso qualcosa che non ha cesura. I due punti non elidono, tendono verso l’unione, quell’unione tra cose che apparentemente sembrano tanto distanti da non potersi sfiorare mai, proprio come nel brano in questione.
Il gran finale comprende Gaetano, Saliva, Frosinone, e, a detta dell’artista, il brano più bello che lui abbia mai scritto: Pesto.
Quel “ue deficiente” rimbomba forte, ed io ribadisco, è amore vero.
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