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Quando ho incontrato TGP: Sativa Rose

“Per esprimere quello di cui ti parlavo, mi occorreva una tela bianca.”

Intervista a cura di Giorgia Groccia

Il progetto Sativa Rose viene fondato a Roma da Alessio Mazzeo sul finire del 2012.

Il Gioco, ultimo singolo fuori per Grifo Dischi, è un brano pregno di contaminazioni interessanti, giostrando il sound urban, indie-pop, all’elettronica. La vita è un gioco ricco di dinamiche occulte, passi in avanti e passi indietro, un dirupo in salita o in discesa, dipende certo, dipende dai punti di vista. La “scala di valori” crea spesso un senso d’oppressione non indifferente, esattamente quell’inadeguatezza raccontata da Sativa Rose nel brano.

 

 

Ecco qui la nostra chiacchierata:

 

 Il tuo ultimo brano si intitola “Il Gioco”, ci racconti com’è nato? 

Il gioco nasce in un momento di riflessione e parla del “gioco” della vita; le cui dinamiche, anche quando ci riguardano in prima persona, consentono di calarsi nei panni di un osservatore esterno attraverso i ricordi. Quel giorno ho rispolverato alcune immagini di esperienze che mi appartenevano, analizzandole con occhi diversi. La sensazione che volevo imprimere nel brano è quella che provo quando mi rivedo in una vecchia fotografia; quella sensazione malinconica che, a modo suo, ognuno di noi avverte quando ritrova un pezzo del suo passato. Quando per qualche istante ci si abbandona al flusso dei ricordi, che scorrono nella mente velocissimi, nonostante magari racchiudano in sè anni interi. Tutto questo avviene nelle strofe, i ritornelli sono invece il “ritorno alla realtà”. Lo stesso che avviene quando dopo esserci incantati, assorti davanti ad una fotografia, ci squilla il telefono per una chiamata di lavoro riportandoci ad una dimensione presente. Lo special è il momento di impasse che si crea quando chiudiamo questa telefonata, in cui presente e passato si incontrano da qualche parte dentro di noi, e per qualche istante coesistono.

Anche se, ad essere sincero, molte di queste considerazioni nascono da seconde analisi. Quando scrivi un pezzo lo fai di getto, seguendo l’ispirazione. La scrittura è molto inconscia; ti rendi davvero conto di quello che volevi dire solo quando riascolti quello che hai scritto, dopo aver metabolizzato la sensazione di partenza. Solo allora le cose assumono un significato preciso.

 

Il brano è un connubio ben strutturato tra urban, pop ed electro. Com’è nata l’idea per questo sound specifico? 

Per esprimere quello di cui ti parlavo, mi occorreva una tela bianca. Che scorresse come su un binario per poi sbocciare nei ritornelli, assecondando così il cambio di prospettiva del testo.

L’idea di impostare la parte ritmica come se fosse una base urban mi piacque subito. Dava ossessività alle strofe, unita al cantato confidenziale ed al basso. Nei ritornelli ho pensato a “divertirmi”, musicalmente parlando. In modo da distendere l’atmosfera delle strofe e creare una “rottura” con il resto. Se le strofe sono molto asciutte, qui coesistono diverse idee, che vengono introdotte nei bridge. Sicuramente il look finale del brano è nato in corso d’opera, non c’è stato uno studio… quindi è più probabile che le contaminazioni siano venute fuori spontaneamente, e che abbiano trovato autonomamente una collocazione. Ad ogni modo, un ruolo decisivo per la caratterizzazione del sound l’hanno svolto sicuramente il loop di batteria, la linea di basso ed il Wurlitzer, sono loro a sorreggere l’intero pezzo ed a legare le sezioni tra loro.

 

 

Se dovessi scegliere tre album che ti hanno cambiato la vita, quali sceglieresti e perché?

Oddio… queste domande mi mettono sempre un po’ d’ansia! (Ride, ndr) perchè sono molto identificanti… gli album importanti della mia vita sono tanti ed ho seempre paura di commettere errori di valutazione. Ad ogni modo ci provo:

From Here To Eternity: Live è sicuramente tra questi. Questo album è stato un po’ il mio battesimo alla musica contemporanea. Erano appena iniziate le scuole medie, avevo 11 anni e studiavo musica classica. In casa avevo praticamente solo cassette e vinili di artisti italiani che ascoltavano i miei da giovani. Ho una zia, da parte di mio padre, che è il suo completo opposto, romanaccia e sessantottina per vocazione. Grandissima consumatrice di musica e frequentatrice di live durante tutti gli anni ’70, in Italia ed all’estero. Il pranzo di natale di quell’anno, mi regalò questo album dei Clash, da lì mi si aprì un mondo.

Riccardo Chailly, National Philarmonic Orchestra – Rossini Overtures è un disco che mi ha accompagnato per tanti anni e che continua a farlo. È quello che per primo mi ha fatto conoscere la bellezza, che ha innalzato Rossini a mio idolo personale.

Come terzo metto Random Access Memories, perchè quando uscì mi fece capire che dovevo alzare l’asticella. La sua produzione, con quei suoni, ha rappresentato per la nostra generazione quello che al tempo rappresentò la produzione di The Dark Side Of The Moon.

Anche se non mi è stato chiesto, vorrei fare alcune menzioni speciali: Strokes, De Andrè, Philip Glass, Smiths, Pink Floyd e più recentemente Beach House e Cigarette After Sex, sono tutti ascolti che mi hanno dato tanto e che mi permetto di consigliare in un momento come quello che stiamo vivendo.

 

Su quale palco vorresti portare la tua musica una volta terminata questa situazione attuale di disagio?

Anche se ultimamente sto provando ad immaginare come saranno i concerti del futuro… in Italia il palco per eccellenza è quello di Sanremo, ma mi farebbe molto piacere suonare all’Atlantico di Roma o all’Alcatraz di Milano.

 

Progetti futuri?

Tantissimi, infatti non vedo l’ora che riparta tutto… Anche se questo periodo ci sta facendo bene. Si riesce ad entrare in contatto con quella parte di noi che si era persa tra il rumore. Per questo sono convinto che questa esperienza, una volta metabolizzata, ci darà tanto. Soprattutto alla musica ed all’arte in generale.

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