Articolo a cura di Umberto Matera.
Il mondo della tecnologia ed il mondo della musica sono sempre più concatenati fra loro.
No, in realtà questa non è una notizia. Sappiamo bene che la musica come la conosciamo oggi (e come la conosceremo domani) non esisterebbe senza il progresso tecnologico, il rapporto fra i due mondi è da sempre molto solido.
Ma non sono qui per parlare d’industria, bensì del concept, del tipo di contenuto che sembra stia prendendo il proprio ruolo da protagonista nell’industria dell’intrattenimento e che reclama un’importanza sempre maggiore nella vita di tutti i giorni di chiunque: la Voce.
Anche se in realtà, SPOILER: la voce è sempre stata La Protagonista. Di tutto, per tutti.
Partiamo da una notizia di cronaca musicale proveniente dal commentatissimo Festival di Sanremo appena conclusosi: la vittoria del premio Sergio Bardotti per il miglior testo e del Premio Lunezia per il valor musical-letterario della canzone da parte di Madame, con la canzone “Voce”.
Il brano, che anticipa il primo album di Madame omonimo in uscita venerdì 19 marzo, ha entusiasmato il pubblico a casa, scatenando grandi reazioni sui social network e sulle piattaforme di streaming. A dire il vero però prima ancora del brano è stato apprezzato qualcos’altro: la performance della cantante vicentina sul palco dell’Ariston.
Sin dalla prima sera Madame ha portato sul palco una sincera teatralità strettamente legata al testo della sua canzone, accompagnata da outfit che ne ampliavano lo storytelling: che rappresenta la figura della madre ed il secondo quello della sposa.
Ma di chi?
Della sua Voce.
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Questo vestito, realizzato da Maria Grazia Chiuri (direttrice creativa di Dior) come tutti gli outfit esibiti da Madame durante le serate del festival, ha lo scopo di rappresentare il suo essersi fatta da sola, la sua identità e, di conseguenza, l’aver creato da sé la sua Voce.
Nella serata finale invece Madame veste un abito da sposa con la scritta “Voce” incastonata nel velo.
Con quest’ultimo look viene definitivamente fuori il messaggio che la cantante vuole lanciare: non solo si svuole svincolare dallo stereotipo della donna come madre e/o moglie, ma vuole reclamare l’identità e la libertà di potersi congiungere solo con la sua arte, con la sua identità, con la sua Voce per l’appunto.
“Ho fatto un’altra canzone, mi ricorda chi sono”
Capita spesso di rifugiarsi nel silenzio quando ci si sente non ascoltati, alla stessa Madame probabilmente è capitato. È in questi momenti che si rischia di dimenticare chi si è, di dimenticare il valore della propria identità.
La mia frase preferita di “Voce” parla della reazione a questa situazione: la propria arte utilizzata come evasione dal rumore di fondo, la scrittura come recupero e affermazione della propria identità e come lotta. La Voce come una vera e propria terapia d’evasione.
Quanto è facile perdersi nel rumore di fondo? Le nostre parole lo fanno troppo spesso. Quante volte vi è capitato di aver parlato con qualcuno ma di non aver lasciato niente al vostro interlocutore? Personalmente tantissime volte; mi capita sempre più spesso di incontrare persone sempre meno disposte ad affrontare un discorso, specie se troppo lungo o complesso. Il concetto non suonerà nuovo a chiunque di voi bazzica il mondo della musica, dove la durata delle canzoni è sempre più ridotta all’osso per ragioni sia discografiche che di catch-rate sull’ascoltatore. La situazione non si limita però al mondo discografico, è chiaro.
Siamo nell’era in cui il canale di comunicazione più efficace sono i video, dalla durata sempre più tarata sui 15 secondi o al massimo sul minuto. Ampliando il discorso siamo nell’era dei social network, dove il culto dell’immagine e dell’esibizione, che sia di noi stessi o di un qualsivoglia contenuto, supera spesso il concetto d’identità, di voce.
Forse però è il caso di cambiare il tempo verbale dell’ultima frase.
Superava il concetto di voce.
Come spesso succede al Baretto, adesso ampliamo il discorso. Partiamo da qui:
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Spotify ospita già sulla piattaforma una sezione dedicata ai podcast, così come Apple Music e altre piattaforme di streaming. In Italia però non vi erano fino a poco tempo dei contenuti podcast originali prodotti in prima persona da Spotify. Il primo è stato proprio quello dei The Jackal, “Tutto Sanremo ma dura meno”, inaugurato in occasione del Festival di Sanremo di quest’anno e la cui prima puntata è stata resa disponibile il 24 febbraio.
Non fa più notizia dire che i podcast sono un contenuto multimediale di cui si fruisce sempre di più. Però se ci pensate quanto è strano pensare che, in un mondo in cui TikTok cresce a dismisura e i contenuti video fanno da padrone, stia crescendo anche un tipo di contenuto multimediale che ha come protagonista unico la voce degli speaker?
I reparti marketing delle piattaforme streaming si saranno sicuramente fatti questa domanda ma senza il bisogno di trovare una risposta. È molto importante però che se ne siano accorti, perché la produzione originale da parti di grandi aziende dei podcast potrebbe portarli ad un livello superiore, valorizzandoli e portando all’attenzione del larghissimo pubblico della musica in streaming il mondo, ancora nascosto, degli speaker dei podcast.
Tutto questo si traduce nel riportare al centro del multimedia game la voce, nostra protagonista di oggi.
Non siete ancora convinti? Beh, allora non siete mai stati su Clubhouse.
Sicuramente ne avete per lo meno sentito parlare, ma ricapitoliamo in breve.
Clubhouse è un social network accessibile solo su invito (ogni utente ne ha due appena si registra) lanciato dalla Alpha Exploration Co. e creato da Paul Davison e Rohan Sethad. Ha debuttato ad aprile 2020 su iOS ed è tutt’ora un’app esclusiva per dispositivi Apple. La sua caratteristica principale è che gli utenti registrati non hanno immagine, se non la minuscola icona profilo: l’unica interazione possibile con gli altri utenti è attraverso la propria voce.
Chiunque voglia può creare una propria stanza e avviare una conversazione con gli utenti ospiti, che potranno intervenire attivamente in qualità di speaker oppure limitarsi al ruolo di ascoltatore. Le stanze sono regolate dai moderatori, che possono invitare altri ospiti nella stanza e concedere o togliere agli altri utenti la possibilità di intervenire.
Sembra un altro mondo se lo paragoniamo ai social firmati Zuckemberg o a TikTok, io stesso appena entrato sono rimasto abbastanza spaesato…ma in positivo.
Quanto è bello poter parlare alla pari con altre persone conosciute e sconosciute senza farsi troppi problemi, avendo la possibiltà di aggiungere la propria opinione ad una conversazione, alimentare la stessa e soprattutto essere ascoltati e poter interagire con chiunque liberamente senza dover per forza avere un profilo da almeno 10.000 follower.
Ad inizio 2021 Clubhouse ha spopolato in Italia, creando un potentissimo tam tam mediatico e coinvolgendo nelle stanze molti utenti super interessati e affascinati, quasi stregati. Si, perché era davvero difficile staccare da Clubhouse all’inizio. Come mai?
Beh, le conversazioni nelle stanze sono sempre live e non c’è modo di renderle disponibili on demand, quindi se ci si perde una determinata conversazione alla quale eravamo interessati non c’è modo di recuperarla. Tutto ciò alimentava la cosiddetta FOMO, ovvero Fear Of Missing Out: la paura di essere tagliati fuori, un po’ come quando al liceo ti perdevi una festa e il giorno dopo in classe non si parlava d’altro.
Nell’ultimo paragrafo ho parlato al passato, si. Clubhouse dopo un periodo iniziale in cui ha spopolato ha subito perso la notevole affluenza di utenti, mantenendo la fidelity di alcuni di loro ma perdendo tutti coloro che avevano scaricato l’app cavalcando l’onda della novità.
Saprà tornare ai numeri di inizio 2021 e magari superarli? Gli sviluppatori stanno lavorando per rendere disponibile Clubhouse anche su Android il prima possibile, sarà sicuramente un’occasione per tornare sulla cresta dell’onda.
Voi che ne pensate? Cosa pensate di questo prepotente ritorno della voce come protagonista? Credete sia possibile valorizzarla ancora di più affinché possa mettere in secondo piano tutta l’ingannevole apparenza che i social network ci hanno imposto negli ultimi anni?
È difficile dirlo, stiamo comunque parlando di imperi come Facebook/Instagram e TikTok.
Sono però sicuro che ci sia l’urgenza di far venir fuori l’identità di ognuno di noi: è vero che “parla, la gente purtroppo parla, non sa di che cazzo parla”, ma è vero anche che da un anno a questa parte tutto il mondo reclama di voler tornare a fare rumore e che il modo migliore per farlo è mettendo in gioco la propria unicità, riconoscendo a noi stessi la potenza e motiva e comunicativa della nostra Voce.
What do you think?