Esce giovedì 19 maggio 2022 “Vorrei“, il nuovo singolo del progetto Van Dyne, un nuovo capitolo che segue l’esordio con “Luna Park” per la band di Bologna. Si tratta di un brano che suona come un fiore che appassisce, è un quadro rimasto incompleto, è il desiderio di volerlo completare pur sapendo di non avere i colori giusti per continuare. È un brano scritto durante gli ultimi mesi di una relazione e rappresenta una piccola catarsi sentimentale racchiusa in uno degli episodi forse più immediati e diretti del primo EP della band.
E abbiamo parlato con loro di questo brano e di David Foster Wallace.
– In che modo “Vorrei” e “Luna Park” sono collegate tematicamente?
Tutti i brani del nostro primo EP, compresi questi due primi singoli, sono accomunati a livello tematico dal fatto che parlano di persone, sono molto “umani” se così si può dire. Prendono tutti spunto da situazioni che si vengono a creare a un certo punto della vita e ne sviscerano i dettagli emotivi con sfaccettature diverse a seconda del brano. Speriamo infatti che l’integrità e l’omogeneità artistica traspaia non soltanto dagli arrangiamenti ma anche dai testi.
– Cosa c’è di autobiografico in questo ultimo singolo?
“Vorrei” è un brano molto autobiografico. È stato scritto poco prima della fine di una relazione importante e rappresenta un resoconto molto intimo di quello che si prova quando senti che ormai tutto sta sfuggendo di mano irrimediabilmente anche se vorresti che non fosse così.
– In cosa, Bologna vi ha favorito dal punto di vista dell’ispirazione?
Bologna è un posto in cui ti senti vivo, non solo da un punto di vista sociale ma soprattutto culturale. Il fatto di essere circondati da gente che fa arte, si occupa di arte o che ne fruisce contribuisce tantissimo a stimolare la creatività è l’ispirazione. Tutti noi abbiamo potenzialmente qualcosa da dire e il fatto che venga o meno fuori è molto connesso all’ambiente che ci circonda. Vivere in una città di questo tipo è come dare ossigeno alla piccola scintilla dell’ispirazione che altrimenti rimarrebbe appunto solo una scintilla.
– Quale dei vostri progetti musicali precedenti vi è stato più d’aiuto?
Non crediamo ci sia stato un progetto in particolare che abbia contribuito in maniera preponderante rispetto ad altri. È banale dirlo ma siamo la somma di quello che abbiamo fatto nel corso della vita e ciò vale anche per la musica. Sicuramente è stato molto importante il fatto di aver esplorato vari generi prima di essere approdati al pop, che riteniamo essere un genere tanto semplice da fruire quanto complesso da un punto di vista della composizione e degli arrangiamenti. È molto più semplice, per quanto ci riguarda, piazzare un assolo sperimentale di sei minuti in un brano post-rock che scrivere una linea melodica di dieci secondi che sia veramente azzeccata.
– Qual è il primo libro di David Foster Wallace che dovremmo leggere e perchè?
Il nome della band è stato scelto dopo la lettura di Infinite Jest, romanzo di David Foster Wallace in cui una delle protagoniste si chiama appunto Joelle Van Dyne. È uno di quei libri che a vederli in libreria fa paura solo per il suo “peso” e una volta che lo acquisti le cose non migliorano perché scopri che in appendice ci sono un centinaio di pagine dedicate alle note e alle note delle note, tra l’altro di fondamentale importanza per una fruizione comprensiva della storia. Anche se più che una storia è proprio un universo, popolato da un’umanità a volte semplice e a volte molto bizzarra.
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