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Sopravvivere al Pinewood è la cosa migliore che abbiamo fatto quest’anno

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La premessa è che veniamo da un momento dove ci avevano tolto più o meno tutto, ed era stato fin troppo facile abituarsi al divano, alle estati in famiglia a svuotare e riempire la piscina di quella zia che vive in campagna. Io mi ero anche abituata a non bere più, alle estati tranquille, a quella vita sospesa che si legge nelle pagine di Chiamami con il tuo nome, come se non ci fosse piacere migliore di bere un caffè, dormire tutto il pomeriggio e pucciare i piedi in un lago di prima mattina. Questo era tutto quello che mi serviva, da quando il Covid mi aveva intrinsecamente invecchiata e intristita. L’idea di partire da Milano, scendere fino a Roma, da lì prendere un autobus che arrivasse a L’Aquila, scegliere l’Airbnb più scadente che potessi trovare e addirittura farmi su e giù la peggio salita per andare a pranzo in città (perchè sì, L’Aquila è piena di scale e salite, che non vi auguro la sciatica), era del tutto impensabile.

foto di Simone Pezzolati

Eppure eccomi qui, in un ristorante che mi ha consigliato un vecchietto per strada dicendomi che ero molto bella, in pieno centro a L’Aquila, in sottofondo Goran Bregovic (incredibilmente dal vivo perchè c’è un concerto gratuito in piazza), perchè domani iniziano i miei tre giorni di delirio sospeso al Pinewood. E dico “sospeso” perchè non sono neanche più tanto convinta di avere quell’energia e quell’aggressività adatta ad un festival, perchè il Primavera e il Miami non mi hanno fatto capire niente, se non che non pensavo di conoscere così tanta gente, e perchè la mia introversione si è amplificata fino quasi ad esplodere nei periodi più acuti di quarantena. Le persone, le bimbe di Blanco e la coda per i bagni chimici, forse non fanno più per me. O forse devo solo ubriacarmi molto.

foto di Simone Pezzolati

 

Ed eccomi qui. Io, una birra in mano, la gomma delle scarpe che sembra essere sul punto di sciogliersi da un momento all’altro, un braccialetto pieno di soldi che posso usare, e mi sento molto cosmopolita in questo momento, per pagare ciò che mangio e bevo. Le cover di Caffellatte mi accolgono appena entro, il Frah Quintale del 2017 che tanto mi aveva fatto impazzire, ma è presto per fissarsi o per stare fermi, mi aggiro nell’aerea gaming dove un branco di nerd incalliti mi fissano, percepiscono la mia inquietudine ed ignoranza, ne sono più che sicura. Incrocio il Masseo, gli sorrido perchè da cretina penso che se io lo conosco tanto da avere la sensazione di sapere tutti i cazzi suoi, non necessariamente è vero anche il contrario. E poi Ditonellapiaga che mi riporta a Sanremo, Mobrici che mi riporta a quando di Sanremo non me ne fregava niente, Tananai che invece mi fa dimenticare di averlo proprio visto, Sanremo. Arrosticini, pausa bagno, un saluto al magliettaro di Tananai che era stato anche il magliettaro dei Verdena ed ecco che inizia Rkomi. Che io Rkomi lo avevo visto al Gate, che non ho capito se esiste neanche più, che pesava venti chili in meno, tossiva di fumo e veniva circondato da ragazzini incazzati. Ora i ragazzini incazzati non ci sono più, ci sono le ragazzine innamorate, mi sembra comunque un ottimo cambiamento: l’amore fa sempre bene.

foto di Simone Pezzolati

E poi ho fatto quello che ho imparato a fare ogni volta che tornavo dal Magnolia o dal Live di Trezzo Sull’Adda: mi sono messa in mezzo al parcheggio all’uscita e ho chiesto, con MACE in sottofondo, se ci fosse qualcuno disposto ad accompagnarmi in città. So che ci sono le navette, ma mi fanno male i piedi, sono ubriaca e non ho nessunissima intenzione di sforzarmi di capire dove io possa trovarle. E trovare due ragazze che mi riportano a casa è fin troppo facile: mi dicono che devo andare a mangiare in un posto che si chiama La Malandrina, che a Milano si sta bene ma pagano poco, che però l’Abruzzo è da sfruttare solo per le vacanze, perchè qui invece non pagano per niente. Ringrazio e mi butto sul letto vestita, macchiando di mascara il cuscino.

Il giorno 2 è un concentrato di saluti e strette di mano, perchè è bastato un giorno per riunirci sotto un unico destino: birra in una mano, arrosticini nell’altra. Mi ero quasi dimenticata che cosa significava andare da una parte all’altra, salutando e abbracciando persone che ho visto solo mezza volta ieri, che non mi ricordo neanche come si chiamano ma che non vedo l’ora di seguire su Instagram e di assorbire le loro vite come un vampiro sociale. Mi perdo in questo turbinio sociale, fino a capire che Speranza è il mio nuovo artista preferito. E a poco serve il fatto che sta per arrivare Massimo Pericolo: giubbotto antiproiettile con quaranta gradi all’ombra, e qualche invettiva contro i genitori (non i suoi, quelli di tutti). Segue Ernia che ogni brano dice “Vi devo dire che nella mia carriera lunghissima è successo anche che…” e Sick Luke, una meraviglia ma sono sdraiata sull’erba a guardare il cielo come fossi sotto acidi.

foto di Simone Pezzolati

Del Pinewood mi rimarrà questa sensazione addosso: io che mi posso mischiare ai liceali e alle ragazzine scosciate, anche se di anni ne ho quasi 30 e mi vesto di merda. Io che mi posso ancora ubriacare con poco e posso amare qualcuno che conosco da cinque minuti. Posso ancora meravigliarmi quando arrivo a domenica, perchè le persone sembrano il doppio rispetto agli altri giorni, l’ansia per Blanco e la stessa che avevo io a quindici anni, quando avevo la camera piena dei poster di Julian Casablancas, ritrovo i Post Nebbia e gli Iside, visti più volte un po’ ovunque e scopro di amare Mara Sattei, dea indiscussa in questo mondo di zotici dove mi ci metto anche io. Blanco è un’esplosione, non è un concerto ma è una connessione estrema con chi si innamora anche di una foto, di chi si impara un disco a memoria, è la percezione di un amore carnale estremo, è una commedia di Disney Channel diretta da Lars Von Trier e, se ve lo state chiedendo, questa commedia è veramente bellissima.

M.

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