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Malmö – Intervista. A Santa Maria a Vico puoi fare post-rock

Avevamo già parlato dei Malmö e sicuramente, avevamo anche già parlato di quanto ci sia piaciuto il loro disco d’esordio, Manifesto della chimica romantica. Quello che ancora non era stato detto, è che siamo andati a dirglielo di persona, in occasione della loro ultima data romana al circolo Sparwasser.
Nel piccolo magnifico locale in Via del Pigneto, Daniele Ruotolo e company hanno dato vita ad un’esibizione stupenda, tenendo fede a quanto di bello ci avevano già fatto ascoltare su disco, ma prima di cominciare, in un incasinatissimo, romanticissimo ed anche alquanto freddino backstage, con il cantante e chitarrista dei Malmö avevamo parlato di chimica, di romanticismo, di poster in cameretta e di post-rock.

–   E siamo partiti proprio dal nome, Malmö, che rimanda immediatamente a determinate atmosfere. Abbiamo già letto il motivo: un viaggio che i ragazzi del gruppo volevano fare in quella città. Ma perché proprio quella?
«Da Copenaghen a Malmö – spiega Daniele – si arriva tramite un ponte. Eravamo già a Copenaghen e c’è questo ponte fantastico che arriva a Malmö, che era quindi la prima città in cui saremmo arrivati in Scandinavia. E poi ci piaceva proprio come suonava, la fonetica della parola».

–   Che poi, voi come la pronunciate?
«Malmo, in italiano, così com’è scritto. Anche se in realtà gli svedesi lo dicono in maniera diversa, “Moolmoo” o giù di lì, una cosa proprio difficile da pronunciare…».

–   E se mi permetti, anche da scrivere…
«Ti confesso una cosa: sul cellulare c’è la ö quindi nessun problema, ma quando devo scriverlo al computer cerco prima “Malmo” su Google e poi copio/incollo la versione corretta con la dieresi*».

*le vocali con i due puntini sopra, in italiano anche se non hanno uso, si chiamano così.

–   Allora ecco una dritta: Alt+148
(ma solo su Windows ed il 148 va fatto con il tastierino numerico).

«Quindi è vero? Ma a me questa cosa non riesce mai!».

–   Dal nome del gruppo al nome del disco.
Cosa volevate evocare con “Manifesto della chimica romantica”?

«Riguarda i testi. In tutti c’è una visione molto scientifica della vita, anche in quelli in cui si parla di fede ed ateismo. Abbiamo una visione della vita molto scientifica ma che al contempo è anche molto romantica: penso al fatto che ogni parte del corpo umano, come ogni emozione, funzionana per reazioni chimiche, siamo di fatto una produzione di enzimi continua. E questa è una magia fantastica che anche se scientificamente si può spiegare, succede raramente e ci si riesce poco. Quindi nei testi abbiamo questa visione molto romantica, anche sentimentale, che però sappiamo essere qualcosa di scientifico. Nel titolo del disco volevamo mixare tutto questo, scienza e chimica con il romanticismo».

 

 

–   Un contrasto che quindi si trasforma in un equilibrio, proprio come succede tra la musica forte ed un cantato molto delicato, melodico. Molto “italiano”. Qualcosa che è stato anche criticato. Ma che rappresenta una scelta precisa.
«Assolutamente si, anche molto studiata. Quando sono entrato in studio ero anche abituato a cantare in maniera differente. Con il produttore (Massimo De Vita dei Blindur, ndc) abbiamo deciso di dare al disco questo timbro sussurrato, delicato, senza mai forzare. Ma tra le critiche costruttive arrivate c’è stata anche questa, che a qualcuno non è piaciuta questa scelta di avere la voce sempre così in tutto il disco e l’ha trovata monotona. È uno spunto di riflessione che per il prossimo disco si può certamente prendere in considerazione».

  

 

–   La critica che vi è stata mossa, per come l’ho percepita io, più che sulla monotonia verteva sull’eccessiva “italianità” del canto, che non osava mai spingersi verso orizzonti già battuti in ambito internazionale come invece fate con la componente strumentale.
«Se non sbaglio qualcosa in questo senso l’ha scritta Blow Up, nell’ambito di una recensione bellissima in cui venivamo anche lodati per “picchi di eccellenza” nella parte strumentale, c’era il non condividere la scelta di una voce che non andava mai ad osare in nessuna direzione, ma comunque convenivano che fosse stata una scelta e non un problema. Che posso dire, sarà magari un’impostazione un po’ vecchia, ma se per effettistica sulla voce intendiamo i vocoder alla Bon Iver ad esempio, lì diventa una questione di gusto e di stile, secondo me da evitare ma non perché Bon Iver non sia un genio assoluto, nel suo campo ci sta e lui lo fa alla grande, nel nostro ambito invece non ci stava. Tra l’altro abbiamo studiato tutto il disco in modo che suonasse come avremmo voluto suonarlo dal vivo. Spesso si fa il contrario, si fa il disco e poi si decide come suonarlo dal vivo, mentre noi volevamo proprio impostare tutto pensando al live, ed anche la voce rientrava in questo discorso».

 

 

–   Abbiamo parlato di critiche, che effetto ti hanno fatto? Cambieresti qualcosa col senno di poi? O come hai detto, puoi trarre indicazioni per il futuro?
«A dire la verità, agli elogi non mi abituo mai. Non so se questa cosa possa mai cambiare ma onestamente spero di no. Quando qualcuno viene a dirmi una bella parola sul disco o a complimentarsi dopo un concerto, è una bellissima sensazione, qualcosa di fisico proprio, a cui spero davvero di non abituarmi mai, perché penso che invece sia brutto se un complimento ti scivola addosso. Di critiche negative, devo essere onesto, ne abbiamo avute veramente poche. Queste sulla voce ad esempio le prendo come costruttive, quando fai un disco lo sai tu per primo che se fai determinate scelte, puoi aspettarti che lì arrivi qualche critica, quindi quelle fanno poco male, anzi, accrescono la consapevolezza di poter lavorare su alcuni aspetti. Altre, pochissime davvero, sono proprio gratuite: la più brutta ricevuta era qualcosa tipo “questi ragazzi hanno fatto il disco con il poster di Jónsi* in cameretta”. Ecco, in questo senso mi sarei aspettato più qualcosa tipo “questi sono gli Explosion in the sky cantati”, perché siamo molto più legati a loro, a Mogway, a quel tipo di suonato chitarristico che non ai Sigur Ros. Mi rendo conto che il post-rock ha degli artisti che ne hanno segnato la storia e tra questi i Sigur Ros lo hanno fatto forse di più, per cui nell’immaginario collettivo “post-rock=Sigur Ros”, ma pur con l’incontaminata stima nei loro confronti non è il nostro gruppo di riferimento e non credo che le nostre sonorità siano assimilabile ai Sigur Ros, non siamo orchestrali, non abbiamo archi, non abbiamo fiati. Forse è il glockenspiel che inganna – ride Daniele – ed il fatto che Biggi** ci abbia fatto il mastering ha fuorviato qualcuno».

*Jón Þor Birgisson detto Jónsi, è chitarrista e cantante islandese, cofondatore dei Sigur Rós.
** Birgir Jon Birgisson detto Biggi (si pronuncia “Bigghi”) è lo storico fonico dei Sigur Rós.

 

 

–   Venite da un paese in provincia di Caserta. Magari per voi no, ma fa strano che della Campania, una terra così caratterialmente forte e segnante nella sua musicalità, un gruppo suoni in maniera così “nordica”.
«Noi, tre su quattro del gruppo, viviamo in un paese di quindicimila abitanti in una valle, non abbiamo il mare e Napoli è a 30 chilometri, siamo napoletani a tutti gli effetti ma la quotidianità non è quella della città, anzi è molto lenta, molto tranquilla. Ed io sono convinto che alcuni luoghi ti inducano a fare determinati generi musicali. Se vivi a Londra per esempio, è normale che fai drum and bass, la velocità della metropoli ti porta in quella direzione. A Santa Maria a Vico non puoi fare drum and bass, i bambini vanno a scuola a piedi, l’ambiente non è quello della grande città metropolitana. Da noi fa freddo, in inverno accendiamo il camino. Non è Napoli – racconta ridendo Daniele – e se vieni dieci giorni a Santa Maria a Vico ti rendi conto che lì, ti può venire di fare il post-rock».

E magari un giorno ci andremo davvero, finito il tour o in una pausa, a scaldarci davanti al camino quando farà ancora freddo, a parlare ancora di chimica, di romanticismo, di poster in cameretta e di post-rock. E magari il vino lo portiamo noi, la cortesia è importante, ma i Malmö sono campani e per il cibo ci affidiamo a loro. Anche se hanno il nome nordico e le loro chitarre suonano in islandese. E lo fanno davvero bene.

 

a cura di Riccardo Magni
foto di Mattia La Torre

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