Non faranno più delle scarpe belle e comode come i Doc. Martens. Da quando le producono in Cina, ed ogni tanto ci ripenso, a loro come alla mia adolescenza, mi domando sempre che fine abbiano fatto gli stabilimenti produttivi in UK, e le macchine che li cucivano, e gli operai che lavoravano in fabbrica. Non cerco le risposte su google, perchè non le voglio, a dire la verità.
Ho dimenticato la data in cui la filiera produttiva e’ stata dislocata fuori dal Regno Unito ogni volta che sono andata a leggerla. Come la vita, che scivola nel passato senza ufficializzare sul calendario il giorno in cui diventa ricordo, cosi’ una parte di me si ostina a preservare i
The ORIGINAL Doc. Martens Air Cushion Sole Oil Fat Acid Petrol Alkali Resistant MADE IN ENGLAND come la me moria intima di una generazione. Prima che i Doc – in amicizia li chiamavamo cosi’ – comparissero sulla copertina di “No Need To Argue” dei The Cranberries, noi nati alla fine degli settanta non avevamo un’identita’ ma eravamo quei ladri che avevano frugato nei cassetti dei sessantottini per cantare, ballare, e sognare. Eravamo l’ombra lunga del sessantotto, sottile e priva di sagoma, cosi’ esile da perdere ogni forma. Avevamo rubato i Beatles e Bob Dylan, Joni Mitchell e Patti Smith, Woodstock e Joan Baez, trafugato bandane e blue jeans, t-shirt e camicie fuori. Per ogni cosa che facevamo mentre cercavamo di essere giovani, una voce decadente e nostalgica ci concedeva il prestito di qualcosa che non avevamo inventato ma che potevamo usare. Eravamo i figli coi sogni di seconda mano e la rivoluzione noleggiata. Io preferivo stare zitta, perchè in fondo non potevo identificarmi ne’ nei tacchi di Prince, ne’ nei sintetizzatori, e l’adolescenza e’ una stagione troppo acerba per rispondere alla provocazione generazionale con un colpo d’anca alla Michael Jackson minacciando di tirare fuori dall’armadio i pantaloni di pelle. Poi un giorno come un altro arrivò il grunge, una voce roca che si faceva sentire da Seattle con suoni secchi e scarnificati, degli album che suonavano come se incisi in un garage. Potevamo cantarle con le camicie a quadri sgualcite e con la nostra voce, senza che nessuno ci accusasse di plagio. Finalmente potevamo cantare le nostre canzoni alle nostre feste, e non sentirci la copia di nessuno. La mia generazione si e’ svegliata col grunge, ma con l’Indi e’ stato giorno pieno, almeno qui in Europa. Un giorno, mentre un autobus urbano ci riportava a casa, chiesi in prestito il walkman ad un compagno di classe che mi aveva fatto ascoltare “Smells like teen spirit”. “Ma stasera la metti?” “Si’, sentiamo tutto l’album” e io finalmente avevo voglia di andare ad una festa, mi spingeva ad uscire di casa la voglia di ascoltare quel disco che mi ritraeva come una fotografia fatta all’ora giusta. Non ero piu’ un’ombra, anche se quello che avevamo da dire era: “Nevermind”. Eravamo la prima generazione cresciuta senza religione (cit. Douglas Coupland) e, seppur cresciuti senza Dio, non eravamo piu’ illegittimi, “Losign my religion” non era piu’ un messaggio di smarrimento, ma un segno di riconoscimento anagrafico.
Quando il 5 aprile dell 1994 Kurt Cobain si e’ ucciso, lasciandoci spaventati ed attoniti, siamo rimasti orfani per pochi mesi, neanche quelli che bastano per elaborare un lutto. Ad ottobre dello stesso anno si levo’ un grido nuovo, viscerale e profondo, arrabbiato e forte come la potenza di una donna. Era un suono più basso e rotondo, più pieno ed echeggiante, arrivava da un’Irlanda ancora povera e triste di guerra civile, e saliva dalle cavità profonde di uno scricciolo vitale e potente.
Ti ricordo così Dolores, oggi che veramente mi sento orfana, che vado in soffitta a vedere, a cercare i Doc Martens che ho conservato dalla mia vacanza a Londra per i diciotto anni che ho compiuto nel 1995. La scatola la apro con la foga di chi ti ha persa da tre mesi e spera che non sia vero. Ho smesso di sentirmi l’ombra lunga del sessantotto con un piccolo walkman in tasca con dentro la cassetta di The Cranberries. Con la tua voce hai cantato il nostro grido di protesta dignitosa, hai scandito le note dei nostri viaggi, e tutte le volte che ci siamo innamorati quando eravamo giovani. Sei stata tutti noi e di tutti noi, che finalmente eravamo quell’Indie rock, che non chiedevamo più niente in prestito a nessuno, neanche a mamma e papa’ di prestarci musica, sogni, idee e sentimenti. Hai dato identità alla gioia che avevamo tenuto dentro, forza alla nostra forza, coraggio al nostro grido di rabbia perchè prima di te nessuno sapeva che anche noi avevamo qualcosa da gridare fuori, nessuno prima ci aveva potuto ascoltare. Dopo No Need to Argue non abbiamo più avuto bisogno di andare a frugare i jeans rotti negli armadi degli altri.
Ci siamo messi i Doc Martens sotto il completo grigio, perchè eravamo nati ricchi, ma non del tutto imbecilli. Pochi di noi sono mai arrivati alti come il tuo acuto ma, pur stonandoti, con te abbiamo conquistato il “qui ed ora” del nostro tempo. Nel 1996 chiedevi “What of Kurt Cobain? Will his presence still remain?” che era la domanda che tutti ci facevamo da quando, quel mattino di aprile, rimanemmo terrorizzati all’idea che i sogni della nostra generazione fossero destinati a durare troppo poco. Con la musica dei Cranberries ci siamo rassicurati del fatto che avevamo ancora altro tempo da vivere, e che la nostra rabbia di disillusi non sarebbe andata perduta.
Ho di te un ricordo indelebile che risale a quel viaggio a Londra nell’estate del 1995: l’Indi Rock era vero, il tempo finalmente nostro.
Piove a Milano il 15 gennaio 2018. Mentre cammino sola per tornare a casa, mi fermo in un bar di Brera a prendere un aperitivo. La pioggia cade sulla veranda del bar, si infrange sulla plastica trasparente riscaldata dai funghi, su ogni sedia una coperta di pile. Un pomodoro condito analcolico mi aspetta mentre ascolto il vocale di whatsapp. Il messaggio e’ vuoto, non si sente nulla. Chiedo spiegazioni. Arriva un nuovo vocale.
“E’ morta la cantante dei Cranberries e ti ho pensato troppo, cosi’, mi ha fatto ripensare a certi anni.”
Resto in silenzio, la prioggia cade e io la sento, ferma su quel messaggio vocale che si riproduce ma non emette nessun suono. Rincorro le parole che sono dileguate, che non si sono lasciate incidere. Penso che tu voglia dirmi qualcosa con questa pioggia, con questo silenzio, con questa sera. Ti ascolto.
I need your affection all the way.
Maria Rita Carota
Foto: © PHOTOPQR/L’ALSACE/MAXPPP
Dietta
aprile 30, 2018Continuo a leggere (io stessa ho scritto qualcosa, ma non è questo che mi preme dire) su Dolores e mi accorgo di non avere mai letto cose così belle come su di lei. Sarà un caso? Non credo proprio; credo che la grandezza di un personaggio si misuri dalla vita e dal talento che lascia dietro di sé e che evoca negli altri.
Complimenti per il bel testo!
Maria Rita
maggio 1, 2018Ciao Dietta! Grazie per le belle parole ma soprattutto per avere condiviso le tue emozioni. Non e’ affatto un caso che su Dolores siano state scritte cose toccanti, e nessun testo sara’ abbastanza per raccontare cosa ha suscitato in ognuno di noi. Con le parole possiamo solo provare a dire quanto ci manca. Condividi il tuo pezzo, faccelo leggere, e’ il modo piu’ bello di averla ancora in mezzo a noi. Grazie e a presto!
Dietta
maggio 7, 2018Cara Maria Rita, in effetti ho scritto nella mia pagina facebookhttps://m.facebook.com/public/Claudia-Secci
in un post del 3 febbraio.
Ma l’ho condiviso anche nella mia pagina professionale dell’Università di Cagliari. Ho parlato di Dolores anche riguardo al tema “Formare a relazioni nonviolente tra generi”, un’iniziativa che fa parte di un ciclo del nostro ateneo, perché mi sembrava importante condividere alcune idee con gli studenti.
Grazie e a presto,