Articolo a cura di Umberto Matera.
Fermi tutti.
Lo so, sembra un titolo di cattivo gusto se pensiamo ai problemi di alcolismo che la femme fatale ex-Disney ha affrontato. Se n’è parlato tanto di questa e quell’altra dipendenza di Miley Cyrus. Probabilmente troppo, no?
Le popstar americane sono molto spesso bersaglio mediatico della “cronaca dei difetti”: Taylor Swift e i disturbi alimentari, Lady Gaga e la depressione, Billie Eilish e il body shaming, Ariana Grande e il disturbo da stress post-traumatico e ho preso i primi esempi che mi sono venuti in mente. Certo, delle volte sono loro a parlarne a cuore leggero, ma sempre e comunque dopo una sorta di pressing mediatico nato da un avvenimento, una dichiarazione mal interpretata o una news che pone l’attenzione su un difetto della persona. Io francamente penso che sia una cosa talmente esagerata che molto spesso offusca il vero motivo per cui le popstar sono tali ovvero la musica. E certo, essere popstar vuol dire far parte della cultura pop e accettare che si parli di sé più di quanto si dovrebbe, come è certo che spesso l’esposizione di alcuni problemi di salute può portare a campagne di sensibilizzazione vincenti.
Ma si esagera troppo spesso.
Ora torniamo a noi. Miley Cyrus ha subito accuse mediatiche di ogni tipo, partendo dall’etichetta di figlia della Disney passando per i problemi sentimentali, la marjuana e l’alcolismo, per l’appunto. Miley è uscita dal tunnel dell’alcolismo già una volta ed ha recentemente ammesso di esserci ricaduta nel 2020, durante questa pandemia che purtroppo ha messo in ginocchio per primo chi già stava combattendo una battaglia. Ma pensateci: uscire da un dipendenza non per forza vuol dire smettere, ma piuttosto moderarsi.
“Quando voglio bere, bevo. Ma quando decido di smettere di bere, smetto. In questo momento la sobrietà è importante per me. Voglio essere lucida per raccontare la mia storia”.
Queste le parole di Miley Cyrus. Saper dire no è sicuramente un grand traguardo, certo, ma forse saper dire di si senza andare oltre lo è ancora di più.
E quanto sarebbe bello farsi una birra con una Miley spensierata, rinvigorita mentalmente e pronta a dir no all’eccesso?
Bene, la mia intro l’ho fatta. Ne vado anche abbastanza fiero rileggendola, bravo Umberto (*pacca sulla spalla). Adesso parliamo di musica però; parliamo di questo nuovo disco che mi ha fatto fare headbanging e ballare sul divano. “Plastic Hearts”, by Miley Cyrus, amici e amiche.
Partiamo dalla copertina. Foto scattata da Mick Rock, storico fotografo di artisti come David Bowie, Lou Reed e Debbie Harry. Lo stile di Miley nella foto è un vero e proprio mash-up fra tre dei sui idoli provenienti dagli eighties: Joan Jett e la sua chioma stile mullet, Billy Idol e il suo biondo platino e la sopracitata Debby Harry dei Blondie col suo iconico make-up. Il riferimento preso per lo scatto è proprio quest’ultima, da sempre idolo di Miley. Il tutto è incorniciato in uno stile che richiama quello delle fanzine e colorato con quel rosa shocking che contraddistingue tutta la promozione messa in atto per il disco.
Ma lo stile anni 80 voluto dalla Cyrus non è di certo casuale. Quindi adesso parliamo di musica.
Fin dal primo brano, WTF Do I Know, Miley ci proietta in un clima di trasgressione, ribellione, liberazione dagli stereotipi e anche un po’ di sana voglia di rivalsa riassumibile in un verso della traccia apripista: “Think that I’m the problem, honey, I’m the solution”. Produzione dall’attitudine rock (non si dica che questo è vero rock perché poi i metallari si arrabbiano eh) che si apre una linea basso crunchy e leggermente distorto. Avreste mai detto che il nuovo album di Miley Cyrus si sarebbe aperto con un basso distorto?
Inoltre viene subito fuori un’altra caratteristica dell’album: non solo l’attitudine degli arrangiamenti sarà rock, ma anche la voce, che è protagonista della title track Plastic Hearts, è un po’ alla Are You Gonna Be My Girl dei Jet. Vocalità graffiata, arrabbiata, che ti fa sentire il peso di ogni singola parola. L’ex stellina Disney viene da un’operazione alle corde vocali nel 2019 ma sembra stare meglio di prima.
Non mancano ballad come Angels Like You, High, Never Be Me e Golden G String.
La prima, di natura bonjoviana, fa automaticamente accendere gli accendini che avete in tasca, anche se sono senza gas. Fa tornare alla mente anche brani come The Climb molto melodici risalenti agli esordi, ma stavolta c’è tanta consapevolezza, tanto vissuto alle spalle e un po’ di rassegnazione nel pensare che spesso “it’s not your fault, I ruin everything”. In vista dei live sento già l’assolone di chitarra tamarro prima dell’ultimo ritornello.
High invece è un pezzo totalmente diverso dal quale viene fuori l’influenza country del padre, star del genere in America. Tenendo il tempo con uno stomp tipico del genere, anche stavolta viene fuori un grido, nel ritornello; un goodbye che non lo è davvero, da dedicare a chi ci farà sentire per sempre un po’ high.
In questo disco troviamo quattro featuring perfettamente calati nella realtà del disco: Dua Lipa, Billy Idol, Joan Jett and The Heartbreakers e Stevie Nicks. Il secondo singolo estratto, Prisoner, vede Dua Lipa e Miley in una combo perfetta (vedere il videoclip per credere) nonché, se ci pensate, unica realistica perché vi sfido a leggere la tracklist e vedere quei featuring senza pensare che sia qualcosa di assolutamente folle.
Ah, domanda: solo a voi Dua e Miley hanno ricordato tantissimo le t.A.T.u.?
In realtà forse i brani con le star del rock americano sono le cose meno riuscite del disco a livello musicale: Night Crawling e Bad Karma non spiccano. Forse a salvarsi è solo Edge Of Midnight, un remix del primo singolo che ha anticipato l’album, Midnight Sky, con Age of Seventeen di Stevie Nicks. In ogni caso, anche se i brani non sono forti, contribuiscono a formare l’immagine portante del disco: Miley Cyrus che fa quello che le piace…e lo fa come cazzo le pare.
L’abbiamo nominato prima, Midnight Sky. Il singolo, che ha fatto clamore non appena uscito e ha iniziato a trasportarci dentro questo nuovo ambiente musicale, è una delle cose migliori del disco. I sintetizzatori fanno da padroni in un brano che si balla, tanto, ma lancia anche un messaggio non da trascurare: “I was born to run, I don’t belong to anyone”.
Ho voluto lasciare per ultimo il mio pezzo preferito: Gimme What I Want. Una vera e propria perla di produzione in cui fanno da padrone le batterie prese direttamente in prestito da In The Air Tonight di Phil Collins (a 1:22 il tributo vero e proprio) ma dove trovano spazio una linea di basso cupa e trascinante, sintetizzatori ed effetti vocali che rendono la canzone assolutamente moderna e innovativa nonostante le reference palesemente retro, più che nelle altre tracce. Testo passionale, sessuale, esplicito. E va bene così.
Insomma, conclusioni.
Diciamo che non mi sorprende che la critica abbia acclamato questo disco come il migliore della produzione di Miley Cyrus e, seppure in maniera modesta, concordo pienamente. Sarà per gusto personale, sarà per attitudine, sarà per le produzioni ma io mi sono ritrovato in pieno in molti aspetti di questo disco. La cosa più importante però è il valore dell’artista all’interno del suo prodotto finale; in questo disco si percepisce la vera natura di Miley, il suo vero gusto musicale che è la commistione di rock, pop, new wave e country. Si sente la libertà e per una persona che è stata sempre bersaglio dei media per qualsiasi cosa facesse, giusto o sbagliato che fosse, nella sua vita questo è fondamentale.
Miley Cyrus si diverte, è a posto con se stessa e a me piace, molto.
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