“Le colline dell’argento” è il nuovo album dalle trame dolceamare di Beatrice Pucci fuori dal 3 giugno su tutte le piattaforme digitali.
Sonorità lisergiche che trovano la giusta quadratura nell’ordine instabile di una sensibilità avvezza alla misurazione del caos: c’è qualcosa di estremamente profetico nelle trame dolceamare di “Le colline dell’argento”, pietra miliare e allo stesso tempo blocco di partenza di Beatrice Pucci, giovanissima cantautrice e compositrice classe ‘98 che pare ben decisa a fare le cose “a modo proprio”. Il risultato dell’azzardo (che è tale solo per chi non conosce ispirazione) è un lavoro denso, che nel giro di danze delle sue sei tracce raggruma e inspessisce la materia concettuale e culturale di uno sguardo sul mondo che, pur nella sua forte identità e autonomia, respira di un afflato generazionale, nella ricerca di un riscatto individuale che passi attraverso l’altro da sé alla riscoperta di una collettività che, oggi più che mai, torni a scoprire la propria intrinseca, profonda e umana fragilità.
Leggi l’intervista.
Beatrice Pucci, cantautrice classe 1998 al debutto sulla lunga distanza con un disco dalle tinte fortemente poetiche, arricchite da una produzione che pare cucita addosso agli spigoli di un album complesso, pregno di riferimento. Ecco, da dove partiresti per raccontare cosa rappresenta, per te, “Le colline dell’argento”?
Per me rappresenta una sfida, perché lo sento come qualcosa di intimo, ma cosa rappresenta davvero penso di non volerlo dire mai perché se lo spiegassi non avrebbe più senso.
L’intero disco si connota di sonorità che richiamano la grande scena d’autore italiana, da Nada a Donà, e allo stesso tempo echi di riferimenti più internazionali, da Elliot Smith ai Radiohead. Quali sono gli ascolti che maggiormente ti hanno guidato nella scrittura del disco?
Mentre scrivevo le canzoni non utilizzavo reference, in quanto a testi, melodie e strutture non ho seguito qualcosa di preciso. Qualche volta ho utilizzato reference, più che altro, per il suono nel senso più generico del termine. Cercavo un senso di spazialità e naturalezza, per questo ho scelto un microfono (Neumann tlm 103) che quando ci canti ti mostra la realtà del tono della tua voce.
Quando hai cominciato a lavorare all’album? E’ stato un percorso frastagliato, il tuo, oppure il risultato di una ispirazione fulminea?
Ho cominciato ad inizio primavera del 2021 e finito alla fine dell’estate, sempre del 2021. Ho preso le canzoni di quel momento e non mi sono guardata indietro.
Tra i tuoi testi, sembra respirare l’ambizione a qualcosa che possa riscattarci dal torpore, svegliarci da questa apatia che consuma il nostro tempo. Credo di poter dire che la tua musica possegga tratti che definirei “generazionali”: ti riconosci in questa definizione? O meglio, pensi di riconoscerti in una generazione ben precisa, con tormenti e dubbi capaci di raccontare le vite di tutti?
Per rispondere a questa domanda sto ripensando a quando mettevo insieme i pezzi di questo disco, il mio sguardo era ristretto su di me, ma comunque credo molto che le cose che facciamo, scriviamo, pensiamo siano in un certo modo connesse, anche involontariamente. Credo che sia una cosa che può trascendere ogni discorso generazionale. Qualcosa che, seppur non volendo, può arrivare a comunicare a tutti, su diversi piani.
Come si fa, secondo te, ad uscire da quella zona di comfort immobilizzante di cui parli in “Città Sospesa”? Come si fa, insomma, a liberarci da questa sospensione?
Accettare le cose guardandole bene per come sono realmente può innescare una serie di magie.
Anche l’amore trova spazio tra i tuoi testi, ma in un modo diverso rispetto a come ci viene raccontato e propinato dagli artisti emergenti di oggi: il tuo amore, in qualche modo, va a braccetto con la morte, con la paura di essere dimenticati. Sembra quasi che in “Figli” tu ci dica che l’unica cosa che rimane, alla fine, siano le canzoni: è così?
Quello che rimane sono le cose che abbiamo creato, anche intese come le idee che abbiamo lasciato fluire attorno a noi. Tutti abbiamo canzoni che ci consolano, magari segretamente le ascoltiamo in solitudine e sono solamente nostre, ci riconnettono a un posto vero, non dobbiamo dare spiegazioni a nessuno riguardo questo.
Hai qualche rimpianto, se guardi al disco che hai appena pubblicato? Qualcosa che avresti voluto raccontare meglio, o di più?
No, dai, non sarebbe normale avere già rimpianti.
Beatrice, grazie del tuo tempo. Salutiamoci, se ti va, con un augurio: qualcosa che, in qualche modo, possa sollevarci dal dolore di questi mesi, anni nefasti.
Grazie a voi per l’intervista, vi auguro leggerezza e se, al momento non c’è, ritornerà.
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