“Le notti come queste notti non ritornano più”
Live report a cura di Andrea Nuzzo
Foto di Nicole Cascone
Eccomi qui a raccontare la mia seconda missione per Tutti Giù Parterre. Ovviamente “missione” in senso positivo, perché per me è sempre un piacere partecipare ai concerti, soprattutto se si tratta di artisti che apprezzo molto come i Canova, di cui parliamo oggi.
La location è la stessa del concerto di Franco126 di due settimane fa, l’Atlantico, ma questa volta me la prendo molto più comoda e arrivo soltanto una mezz’oretta prima dell’inizio del live. La situazione è totalmente diversa: il numero dei presenti non è esagerato e riesco ad accaparrarmi un’ottima posizione da cui godermi il concerto (con il solito spilungone davanti, ma quella è prassi per noi diversamente alti). Ciò fa sì che l’atmosfera sia molto intima e familiare, un po’ come quella che si respirava due/tre anni fa ai concerti di Calcutta e Tommaso Paradiso, e che poi li ha portati a diventare i pionieri dell’Itpop e farli ritrovare da un giorno all’altro a suonare negli stadi e nei palazzetti di tutta Italia.
Come da copione mi prendo una birra alla spina pre-concerto e, neanche il tempo di finirla, che calano le luci e le persone ancora sedute sul parterre si alzano e si avvicinano alle transenne, segnale universale d’inizio di ogni concerto. Non pensavo che esistessero artisti in grado di aprire le danze prima dei soliti 30-40 minuti di ritardo, invece mi sono dovuto ricredere. Ad apparire sul palco però non è la band di Maciste Dischi, ma Nicola Scardamiglio, in arte Scarda, un ragazzo calabrese che, con la sua voce rauca ma intonata e rassicurante, e un accenno di baffo che ricorda lontanamente il sopra citato Paradiso, riesce a coinvolgere il pubblico senza troppi problemi. Per un artista emergente non mai è facile aprire un concerto, indipendentemente che si tratti di uno stadio, un palazzetto, l’Atlantico, o il sottoscala di un localino a Trastevere, perché in ogni caso sente la pressione dei presenti, consapevole del fatto che non si trovino lì principalmente per lui. Anzi, in alcuni casi è anche soggetto a critiche e fischi da parte delle persone poco civili e pazienti del pubblico, che invece di provare ad apprezzare qualcosa di nuovo, lo stroncano senza dargli una possibilità, ignorando che chiunque ha dovuto intraprendere quella gavetta prima di diventare il loro idolo. Non è stato però il caso di Scarda, che, con i suoi tre pezzi tratti dall’ultimo album, se l’è cavata alla grande, forte della sua fedele chitarra a tracolla. Non solo ha intrattenuto qualche suo fedele presente nel parterre che ha intonato a memoria ogni canzone, ma ha anche piacevolmente sorpreso i più che non lo conoscevano.
Dopo i doverosi ringraziamenti, lascia il palco al gruppo milanese. Uno dopo l’altro prendono le loro posizioni i membri della band, ultimo tra tutti -ma non per importanza- Matteo Mobrici, il cantante.
Il pubblico si avvicina ulteriormente alle transenne, rendendo così l’atmosfera ancora più intima di quanto non lo fosse già. Il pezzo ad inaugurare l’esibizione è Shakespeare, che, con i synth molto anni 80, il ritmo crescente, e le prime tre parole “quando ero piccolo” a ricordarci il concetto di principio, sembra una scelta tutt’altro che casuale. Segue un triplete di singoli fenomenali: Domenicamara, Manzarek, e Goodbye Goodbye. Ora il parterre è carico al 100% e ciò non sfugge a Mobrici, che inizia a scatenarsi e a mostrarsi ancora più sicuro di sé su quel palco, come se ci si trovasse da ore. Il resto della scaletta è una continua alternanza delle canzoni di Vivi per sempre e Avete ragione tutti, così da non annoiare nessuno e accontentare tutti -appunto-, sia coloro che hanno apprezzato solo uno dei due album, sia coloro che li hanno apprezzati entrambi. La successione viene però spezzata da una cover che, dopo un piccolo attimo di sgomento, tira fuori tutta l’energia del pubblico: Rolls Royce di Achille Lauro. Al concerto dell’anno prima per il tour di Avete ragione tutti, la cover scelta era Mio fratello è figlio unico di Rino Gaetano: inutile dire che abbia volato con entrambi i pezzi. Neanche il tempo di far riprendere fiato al pubblico, che subito il live va avanti con l’alternanza, fino ad arrivare a Santamaria. Qui l’atmosfera si fa più pacata, le luci calano ulteriormente, e Matteo si siede al pianoforte per poter concentrarsi al 100% su un lavoro che, a giudicare dall’esecuzione, gli sta particolarmente a cuore.
Come al solito avviene il bluff del concerto finito, ma nessuno ci casca e subito parte il classico “Se non metti l’ultima, noi non ce ne andiamo”. Così la band milanese, senza farsi desiderare troppo, risale sul palco dopo neanche un minuto e regala ai parterriani le versioni encore di Aziz e Brexit, Vita Sociale, e Threesome, andando a completare il clima di festa (a proposito, pezzo che purtroppo non era presente in scaletta e che, secondo me, avrebbe meritato un posticino). L’ultimo brano sulle “belle ragazze di città” viene ripetuto un paio di volte con tanto di Mobrici attaccato ai suoi fan più fedeli in transenna, quasi a voler salutare in maniera spensierata e ironica il pubblico e farlo tornare a casa canticchiando canzoni stonate, con le ossa non rotte ma sicuramente affaticate, e un po’ prima delle quattro di notte.
Un live intimo, ma che sapeva anche di festa, come solo i Canova sanno fare.
Mi avvio verso l’uscita consapevole del fatto “che le notti come queste notti non ritornano più”.
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