É uscito venerdì 12 aprile 2024 su tutte le piattaforme digitali il nuovo singolo di Epoca22, in distribuzione Altafonte. Un nuovo capitolo per lo stratificato progetto, che ci accompagnerà verso la pubblicazione di un nuovo album: uno scorcio post moderno raccontato attraverso gli stilemi della new wave: l’arpeggio dell’introduzione, freddo e vacuo, mette in scena la vita “senza senso” del protagonista del brano; i vuoti dei riverberi creano gli spazi in cui si inserisce il racconto. A volte monotona; a volte accorata, la voce fa da narratore esterno alla vicenda; senza giudicare, almeno lei, la sorte dello sventurato Uomo contemporaneo.
Morbosità patologia e asettica razionalità sono le caratteristiche del protagonista del brano – un uomo qualunque; un signor Nessuno della società contemporanea – e sono il risultato dell’ambiente che lo circonda: un mondo fatto di solitudini e dominato dal caso in cui i desideri sembrano scaturire da riviste pornografiche; droghe e voyeurismo. Nella descrizione di questo quadro apocalittico, nell’aridità di questa umanità scarnificata, l’emotività di questo “ultimo sguardo sul mondo” riporta al ricordo di una corsa infantile; alla luce che filtra da una porta finestra di una casa materna prima dell’accecante salto verso l’esterno; verso un “balcone abbacinante” che si fa simbolo di potenza vitale nella sua massima espressione: l’attimo prima della sua cessazione.
Un nuovo capitolo che noi abbiamo voluto approfondire, parlando con loro di ascolti adolescenziali, futuro e molto altro.
Quando hai iniziato ad ascoltare musica in modo consapevole? E dei tuoi ascolti adolescenziali, è rimasto qualcosa?
Credo sia stato un processo in crescendo: ho sempre ascoltato musica; mi è sempre piaciuto cantare. Iniziando a suonare la chitarra, poi facendo le prove con le band, ho imparato a riconoscere gli strumenti; le frequenze; le parti. Quindi, credo di essere arrivano a un ascolto consapevole e matura intorno ai 20 anni. Poi, con il tempo, ho affinato l’orecchio. Lo studio ha influito tanto: conoscere le frequenze, cos’è un equalizzazione e come equalizzare, fa cambiare il modo di ascoltare la musica. E soprattutto, il modo di farla e di produrla. Dei miei ascolti adolescenziali credo che sia rimasta la ricerca sempre e comunque delle melodie; mi piacciono le canzoni che si possono cantare, anche senza ritornello; non è importante. Non sopporto invece la ricerca della melodia catchy a tutti i costi. L’altra cosa a cui sono legato è la cura per i testi. Tanta musica che ascoltavo da piccolo era cantautorale e quindi cerco di valorizzare le parole e non di svilirle in funziona della musica.
Perché proprio il nome Epoca 22? E quali altri progetti musicali ti hanno visto coinvolto prima di questo?
Dare un nome ai progetti è la parte che mi sfava sempre di più. Fosse per me, non darei nessun nome, però è una cosa che si deve fare. Il progetto all’inizio era un duo; eravamo io e Iacopo Catarsi, collega giornalista e musicista pisano. Alla base dei testi e della musica c’era una costante: il tema del tempo. Da qui, l’idea del termine “epoca” per rievocare un’idea di tempo indefinito, ma comunque collocato nel passato; un’idea romantica e malinconica del tempo, come probabilmente la vivevamo all’epoca; avevamo 26/27 anni. Il 22 viene per puro caso: epoca da sola non ci piaceva; ci sembrava un nome troncato; volevamo connotarlo. Decidemmo per usare un numero, un po’ come quelle band beat italiane degli anni ’60. È venuto naturale pensare agli anni ’20, alla belle époque; al tempo, arrangiavamo i brani in una casa lungo mare a Viareggio, dove lo stile liberty la fa un po’ da padrone. Insomma, era il nome giusto per raccontare le sensazioni di quel periodo. Se fosse per me ora cambierei nome in qualcosa di estremamente ispido e dal gusto sovietico. Ma ormai ci conoscono così. Prima di questo progetto, ho suonato in diverse band; a volte ero solo strumentista e lo facevo solo per divertirmi. Anni fa avevo una band indie rock; anche quello era un progetto in cui ero io a scrivere musica e testi. Ci chiamavamo Rain, come la canzone dei Beatles; la b-side di Paperback writer. Abbiamo fatto tanti anni di prove e pochi concerti. Era una cosa ancora immatura. Però tutto fa scuola.
Ci descrivi una vostra giornata tipo in studio? C’è qualcosa che non vi ha messo d’accordo e che vi ha fatto arrivare ai ferri corti?
Risponde Mario: Diciamo che non esiste per noi una vera e propria giornata “tipo” in studio. Ogni giornata di lavoro è a sé e si svolge in continuum con il processo creativo che quando scorre è come un fiume in piena. Più volte nelle fasi di produzione del disco ci siamo trovati a fine giornata a pensare “Ma come? Oggi è già finito?”. Sono convinto che la musica sia un’esperienza mossa dalle sensazioni (sia per chi crea, sia per chi ascolta) oltre alle emozioni, ed un aspetto su cui ci concentriamo molto in studio è la ricerca delle sonorità, perché quelle portano un brano, o un intero album, a parlarti tramite il testo tanto quanto ogni singola nota che compone l’arrangiamento. Aiutano a creare l’ambiente in cui si svolge la storia. Credo che se proprio dovessi descrivere una nostra giornata tipo in studio, la definirei con l’epiteto “ricerca”. Che poi è una ricerca all’interno del brano, ma in un senso più spirituale del termine è una ricerca dentro di te.
Cosa dobbiamo aspettarci da un vostro live? Quale atmosfera volete creare e tentare di raggiungere quando siete davanti a un pubblico?
Risponde Sebastiano: Per noi la dimensione del live è tutto; salire su un palco è il momento più bello perché ci da la possibilità di condividere con tutti quanti ciò che fino a quel momento era racchiuso soltanto dentro la sala prove o dentro una delle nostre numerose chat whatsapp.
Cerchiamo sempre di essere i più sinceri possibile e letteralmente “diamo tutto”. L’atmosfera che andiamo a cercare è quella tipica dei locali underground britannici degli anni 80; ci piace il contesto punk, quello degli spazi stretti, quello delle luci soffuse, del buio che viene rotto da una chitarra acidissima. I locali cosiddetti “ignoranti” ma che alla fine sono quelli più gonfi di passione e partecipazione. Quello che ci piace fare è creare empatia con chi ci sta ascoltando e comunicare un messaggio che deve arrivare a tutti i costi. Non c’è via di scampo. A me personalmente piace anche pensare che chi viene ad un nostro concerto possa trovare un momento di pausa da tutto il resto, ognuno a modo suo. Ognuno come preferisce.
Riuscite a fare musica fregandovene di playlist ed algoritmi?
Risponde Dennis: Non è facile, ma d’altronde non faremmo la musica che facciamo se ci fregasse di questa cosa. In un mondo in cui tutta la musica pop è guidata dal perfetto giro armonico, dalle parole che raccontano storie d’amore, dal ritornello cantabile in tutti gli stadi, arriviamo noi che paradossalmente facciamo tutto l’esatto opposto. Ma ci piace pensare che forse, anche in questo modo lasciamo il segno. Proprio perché andiamo contro i principali algoritmi. E chissà magari qualcuno di questi, un giorno, sarà programmato apposta per noi.
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