Date loro qualcosa da annullare e non vi deluderanno: Milano, Roma, Piazzola del Brenta, Cattolica e Firenze Rock.
Non c’è tappa della reunion italiana dei The Cranberries che non abbia fatto la stessa fine infausta: “Dolores O’Riordan sta male, ci dispiace tanto” dicono sulla pagina ufficiale.
E sotto – proprio lì dove ti aspetteresti bestemmie – piovono valanghe di messaggi empatici e solidali, perché i fan della O’Riordan a questo leggero dolore dell’assenza, in fondo, sono abituati. Lo so bene io che durante l’Are You Listening? (tour europeo) ho fatto registrare l’insolito record della partecipazione ad un numero di tappe superiore rispetto del resto della band. Per la precisione, mentre io attendevo all’ingresso dei cancelli di Parigi e Lille, i The Cranberries si era fermati ad Eboli (o poco più su) mettendo a durissima prova la mia incrollabile fede.
Insomma, Dolores questo vizietto dell’incompiuta ce l’ha, ma come può uno scoglio arginare il mare? Lei chiama e io continuo a rispondere, esattamente come faccio dai 16 anni in su e da quel primo indimenticabile concerto di Casalecchio di Reno (BO), PalaMalaguti, datato 07.11.1999 incorniciato e appeso in camera mia. Se non si fosse capito, è amore. E così – nonostante il piccolo intoppo di Amsterdam il giorno prima (data annullata per un forte raffreddore) e nonostante soffiasse un forte vento di sola, io ho pagato e mi sono avviata. Londra, Palladium Theatre. Non vedo la city dall’anno scorso (ah, che bei ricordi) e i The Cranberries dal 2012 (ah che bei ricordi, parte seconda) per cui devo andare mi dico, anche se il weekend inglese parte sotto il segno del #maiunagioia è proseguirà peggio al mio ritorno con l’attentato di Finsbury Park e il crollo della Grenfell Tower: avrò portato sfiga?
Facile, perche ne imbarco un po’ con me sul volo RayanAir che dopo un breve e tristissimo scalo mi porterà a Stansted: prenotazioni dell’ultimo minuto che così costose non si sono mai viste (alla faccia del last second) e la terribile sensazione di stare per fare una cazzata, non so neanche io perché. Questo il mood che mi accompagna e dovrei imparare ad ascoltarmi.
LONDON – Ma ormai ho voluto la bicicletta e pedalo. Check in da Pescara, decollo con 20′ di ritardo, pernotto in un hotel alla modica cifra di 45 euro + 25 di taxi per 3,2 km e il giorno dopo mi imbarco per Londra che mi accoglie come solo lei sa: acquazzone del sesto grado della scala allagamenti che almeno scema d’intensità quando scendo a King’s Cross e inizio il mio giro da turista sola e media. Covent Garden, Leicester Square ( pronuncia Lesester), Westminister Bridge, National Gallery, Big Ben, St. James Park dove uno scoiattolo mi fa sentire meno sola e attendo un volto amico che mi dà asilo politico, calore umano, una spalla su cui piangere e tante birre in cui affogare il malessere made in Italy: Roberta ha lo stesso sorriso e la stessa tranquillità di quando giocavamo sulla spiaggia da bambine, ma – a differenza mia – è una donna che ha dato un senso alla sua vita, le riconosco una sicurezza che non ricordavo avesse nell’ultimo incontro. Parlare (e bere con lei) mi fa dimenticare tutto il resto per un po’, non ho batteria al cellulare, ma per la prima volta non ho ansia. In un attimo arrivano le 20 ed è ora di raggiungere il teatro che è proprio al centro di Oxford Circus. Lo scenario è stupendo: tre piani di gente che attende Dolores come se fosse ancora giovane e nel pieno della sua estensione vocale, su questa impressione però potrebbe aver contribuito l’alcol. Facciamo che per questa volta scripta volant.
Mentre cerco di tracciare una linea tra emozione e oggettività – puntuali come mai sono stati – i The Cranberries entrano in scena in compagnia della Irish Chamber Orchestra, unica novità (insieme a 3 inediti che non hanno il piglio del singolo) dell’album “Something Else”. Il taglio corto e il look sciatto-trash mi fanno pensare che la Dolores che ho davanti sia proprio quella Dolores carica e adrenalinica che ho lasciato all’Auditorium di Roma 5 anni fa, i lunghi anni di silenzio e attesa – poi – fanno il resto e finalmente l’orgoglio di fan torna a battere forte in petto. Dopo due canzoni in piccionaia (Analyse e Animal Istinct), infatti, costringo Roberta a seguirmi e ci godiamo l’esibizione dalla prima fila, davanti al peggio che possa capitare in un concerto: la coppia danzante che ogni tanto si bacia (più o meno ve ne ho parlato qui). Lui ondeggia come fosse al cospetto di Damian Marley, lei si muove come se pestasse l’uva e sfoggia un passato da discomusic anni ’80. In più, è terrorizzata dai furti e ogni 5 secondi si gira a controllare se per caso non ci sia saltato in testa di rubarle l’ombrello. Tranquilla stella, siamo qui solo per Dolores. Ma – e cazzo anche stavolta c’è un ma – l’entusiasmo iniziale si spegne presto: il piccolo folletto irlandese non muove un passo, e non faccio per dire. La chitarra rimane in un angolo abbandonata, spetta solo a Noel Hogan suonarla e capisco che il reef di Zombie suonato con le dita che tremano dopo 18 anni di prove rimarrà solo nelle mie memorie capitoline. Praticamente ho l’impressione di essere lì per la sorella più grande, che a forza di seguire la star di famiglia ne ha imparato anche il repertorio. Poche parole tra un pezzo e l’altro (non che sia mai stata loquace), l’intro di Ridiculous Thoughts intonato per intero dall’orchestra (no jodel, no party) e il concerto si avvia velocemente verso la solita chiusura che per qualche minuto – ad essere sincera – mi fa fare pace col passato: Zombie è sempre il più bel pezzo degli anni ’90, in You and me e Dreams la rivedo in tutta la sua dolcezza, ma – nonostante la preziosa conquista della scaletta arricchisca la mia collezione fetish post show – il retrogusto è fastidiosamente dolceamaro.
L’aspetto fuori per un po’. Attesa vana perché lei schiva il pubblico da un’uscita secondaria e mi lascia lì a fare i conti con il tempo che è passato tanto per lei, quanto per me. Grazie a Roberta (il mio bancomat non funziona, ti aspetto per gli arrosticini) mangio abbondante cinese e dimentico poco alla volta quella festa mesta. Andiamo a dormire alle spalle dell’Emirates Stadium, la giornata è iniziata prestissimo ma fatico a prendere sonno come sempre accade quando qualcosa non mi quadra e continua a ronzarmi in testa.
Il giorno dopo mi perdo nei colori di Camden Town, mai viste tante culture differenti in un solo quartiere. Scatto un selfie con Roberta. Non è vero, ne scatto 100 provando altrettante espressioni.
“Sembro felice?”, “Puoi fare di meglio”, mi incoraggia. Il risultato è mediocre, ma mentire non è la mia specialità. Mentre ci riavviamo a King’s Cross, Roberta riceve una telefonata e parla inglese con disinvoltura, senza tradire un accento che non riesco più a sentire. Tutto cambia, tutti cambiano. In quel momento mi sento l’unica rimasta dov’era e non voglio trovare alibi. Colpa mia. Fottuta resilienza, ne venderanno un po’ da queste parti?
Qualcuno prima di partire mi aveva detto che questo viaggio mi sarebbe servito a superare la paura dell’abbandono. Forse non è ancora il mio momento. E in questo Dolores c’entra poco, ma è stato un buon pretesto per tornare a lavorarci a distanza di un mese.
Daniele
gennaio 21, 2018Fa uno strano effetto leggere col senno di poi le tue impressioni sul concerto… mi mancherà per sempre…
Fulvia
gennaio 21, 2018Sono partita con la tristezza nel cuore per tanti motivi, un clima che ora si addice alla circostanza. Grazie per essere passato di qui, manca tantissimo anche a me