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Quando ho incontrato TGP: Laurino

“Non so se siamo pronti tutti a cambiare direzione ma io personalmente ne sento la necessità.”

Intervista a cura di Giorgia Groccia

Buddha è il titolo del nuovo singolo di Laurino, un pezzo che segue la via già intrapresa dal musicista veronese in Volume, il singolo pubblicato a gennaio per Cabezon Records.

Qui si fanno sempre più spazio sonorità down-tempo e gli innesti elettronici, come il synth o l’hi-hat della drum machine, che creano un’atmosfera ovattata perfettamente mescolata al piano e alla voce in pulito.

Laurino assume questa volta la parte dell’innamorato confuso, e si domanda: a cosa serve avere un Buddha sotto al letto, o cercare l’illuminazione, se non si è in grado di mettersi al servizio della comprensione e dell’amore reciproco?

 

 

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con lui per farcelo spiegare meglio…

 

Laurino è il tuo cognome e anche il tuo nome d’arte. Se avessi dovuto scegliere uno pseudonimo del tutto inventato, quale avresti scelto?

Bella domanda! Potrei avere tante idee a riguardo, non so quanto possano essere buone però te le dico. Un nome d’arte potrebbe essere proprio “Buddha” (ma forse risulterebbe un pelo pretenziosetto, e senza volerlo in realtà) oppure “Zadankai” (che sarebbe la discussione fra i membri della Soka Gakkai – un movimento religioso buddhista – dove si discute sulla vita e sul proprio io interiore). Non c’è un motivo di fede dietro la scelta, solo di sonorità per quanto mi riguarda. Di mio sono ateo quindi altre ragioni in questo caso non ci sono. Che ti devo dire? Alla fine comunque Laurino mi piace di più! Sono io, è il cognome che mi sono ritrovato.

 

Buddha è il titolo del tuo nuovo singolo, una storia d’amore da leggere tra le righe. Ti ricordi il periodo in cui hai scritto questo brano?

Me lo ricordo bene. Uscivo, in uno dei modi peggiori, da una storia d’amore durata tra alti e bassi tre anni. Mi sentivo piccolo e insignificante, non avevo più nessuno che mi amasse e che potevo amare. E’ stato lì che ho cominciato a farmi domande diverse dal solito e sono andato nel profondo, accettandomi e cambiando ciò che non sentivo mio ma che proveniva dall’assimilazione. “Buddha” parla di un amore finito per sempre, ma che non se ne andrà mai. E qui c’è l’eterno conflitto, il fatto di fregarsene completamente ma che poi, in un modo o nell’altro, torna a farci visita.

 

A livello sonoro è un brano non di facilissima comprensione, possiamo dire che è stato quasi una scommessa?

Rispetto a quello che gira ultimamente nel pop italiano? Senz’altro. Ma l’intenzione non era quella di scommettere, era quella di provare a fare qualcosa di diverso ma che in un qualche modo mi appartenesse. Non per risultare diverso però, questo devo chiarirlo, non è un’esperimento fine a sé stesso, è un modo per dimostrare prima di tutto a me che posso fare “pop” in un altro modo. Perché sono certo che c’è un modo di fare “pop” in maniera diversa e la storia ce lo insegna. Siamo in un periodo storico di saturazione di genere credo, ci portiamo dietro la curva di quello che ci hanno lasciato “I Cani”, “Calcutta” o i “Thegiornalisti”, tante canzoni si assomigliano per produzione, per songwriting, per modo di cantare. Non so se siamo pronti tutti a cambiare direzione ma io personalmente ne sento la necessità, quantomeno per la mia musica.

 

 

A quale fetta di pubblico vuoi rivolgerti con le tue canzoni?

Non ce n’è una in particolare, chiaramente avendo 24 anni non so come potrebbe percepire questa roba uno di 40 o 50. Però l’età non rappresenta un problema vero e proprio per me, se arriva, arriva. Di certo non vorrei suonare alle sagre di paese con gli ultra ottantenni che ballano la mazurca, questo sì, mi aspetterei comunque una fascia di età pressoché giovane anche se non mi dispiacerebbe affatto vedere qualche persona più “matura”. Anzi, mi lusingherebbe.

 

“Volume” è il titolo del tuo singolo precedente, un inno alla vita che oggi più che mai fa effetto ascoltare. Qual è il messaggio di speranza che vuoi lanciare?

Ti ringrazio di questa descrizione innanzitutto. Mi fa molto piacere che la canzone venga recepita per le sue good vibes anche se in realtà parla di paura. E il messaggio di speranza che vorrei lanciare è proprio quello di non averne, in particolare di non averne nel riconoscere qualcosa di sbagliato, che sia il razzismo, che sia la violenza, che sia la paura anche di noi stessi e di comprenderci a fondo. Non serve avere paura, serve farsi le domande giuste suppongo.

 

Lasciamoci pensando a cose future, che ora sembrano lontane ma che speriamo possano tornare presto a far parte della nostra quotidianità: i concerti. Precisamente condividi con noi il ricordo di un concerto che porterai per sempre con te…

Mi viene in mente un  concerto che mi ha letteralmente sconvolto da adolescente, avevo 17 anni ed      ero andato a sentire “Le luci della centrale elettrica” ed era appena uscito “Costellazioni” (disco che ho adorato). Per me Vasco (inteso come immagine di rockstar italiana) è lui, Vasco Brondi. Vasco era tutto quello che ci si poteva aspettare (e non) da un rock post anni 10. Il suo modo di muoversi sul palco, la sua malinconia, il suo sperimentalismo nell’usare strumenti ad arco su dei pezzi a struttura punk, quella chitarra argentata che rifletteva le luci del palco. Era tutto estremamente poetico e vivo. Mi ha rapito, quello fu uno dei momenti in cui pensai “Devo provare a fare qualcosa per essere anche io dov’è adesso lui. Devo provare ad esprimere anche io quello che ho dentro con quella stessa autenticità”. E devo dire che ci sto provando ancora.

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