Va detto prima di qualsiasi altra cosa: il marketing non è per tutti, va bene, e non tutti devono sapere usare i social nel modo giusto, va bene anche questo, e non tutti devono per forza accettare il fatto che creare dei contenuti su Instagram è importante esattamente quanto una giornata in studio per registrare un nuovo disco. Siamo oggettivamente in un periodo strano, di cambiamenti: perchè fino l’altro ieri bastava mettere la propria musica su Myspace e qualcosa, seppur piccola, poteva accadere, mentre oggi c’è questa esigenza assurda di emergere. Tra le mille proposte che un giornalista riceve (non mi voglio addossare questo titolo, io sono un umile scribacchino, quindi “giornalista” è un termine ombrello per comprendere molte cose), la comprensione di cosa si ha davanti è il confine tra lo scarto e ciò che effettivamente verrà passato attraverso le mie cuffie. Insomma, esattamente come il trailer giusto ha fatto in modo che la gente in passato si andasse a guardare anche dei mattonazzi assurdi al cinema, come “2001 Odissea Nello Spazio” di Kubrick (per stare leggeri), curare una pagina Instagram, la propria comunicazione nei dettagli, può fare in modo che anche il più sfigato dei giornalisti, tra dieci dischi possa scegliere proprio quello di Evelina.
Non è successo.
Ho visto profili social con un solo post, eppure così “giusto” che non potevo far altro che correre su Spotify e schiacciare play. Invece qui apro un comunicato stampa che recita cose come “Un asfissiato giardino che pretende uno sconfinato deserto. Non ho parole, non ho note, non ho immagini oneste per raccontare quel che accade oltre queste mura, che non ho più conosciuto, che forse le mie radici estirpate avrebbero potuto ricordare e rispettare.”, e cosa significa, onestamente non lo so (credo neanche chi l’ha scritto, sinceramente, mi sembra una supercazzola per dire “ehi, questo disco è profondo, parla di cose che non potete capire e non ho neanche troppo tempo per raccontarvele“, e la voglia di ascoltare altro è veramente fortissima in questo momento). Sto per aprire una Carillon chiuso da un lucchetto di cui non ho la chiave, sto per risolvere un cubo di Rubik con un timer che mi ticchetta vicino.
E in questo momento sto per affrontare la mia vita da fuorisede con l’ennesimo trasloco, e tra uno scatolone e l’altro sono qui, il volume al massimo, un’ora per sistemare un armadio, e un disco di cui non ho capito nulla, se non che forse piacerebbe a mio padre. Riconosco la voce di Pasolini nella seconda traccia, che si intreccia con abili chitarre e vibes anni Novanta, corro a cercare una pacca sulla spalla, per vedere se sono stato bravo, per capire se si trattava veramente di Pasolini: sul comunicato niente, sulle loro pagine, niente. Chiedo all’ufficio stampa, parliamo a lungo, mi confermano. Ma nel 2024, quando si possono fare video con immagini evocative e voiceover, posso non sapere nulla di nulla? Missà di sì, ma non perchè sia voluto, ma perchè, a questo punto lo scopro, questo disco è un’accozzaglia di influenze, messaggi e genere, è un messaggio nello spazio che nessuno ascolterà.
Questo disco vuole descrivere uno stato di assedio, ma di quella violenza aggressiva (come la posso ritrovare ne Il Teatro Degli Orrori, che cantavano Lavorare Stanca, ma anche Lo dirai a mamma? Che ho ancora un cuore dentro – e che assedio questo!, o anche Giorgio Canali, che urlava quel Tutti Contro Tutti, e altri illustri esempi che di assedi ne sapevano e ne raccontavano molto bene) qui non c’è niente, c’è una confusione quasi borghese di chi di assedi non ne sa molto missà. La cognizione del dolore (consiglio a Evelina anche “La cognizione del dolore” dei Marlene Kuntz, già che siamo in tema) , che dovrei trovare, non è che un pallido accenno a qualche evento di cronaca, senza la violenza personale che dovrebbe avere un disco che è un manifesto, anonimo, di rivoluzione. Senza esporsi, forse di dolore non ne possiamo parlare. O meglio possiamo, ma come?
Criticare una società senza criticarla davvero, rimanendo criptici, pretendendo che sia l’ascoltatore a capire un messaggio, ma messaggio di chi? Non si sa. Una misteriosa Evelina che dovremmo ascoltare a prescindere? Pretenziosa e silente, viziata e ben istruita. Ma io forse preferisco ascoltarmi “A sangue freddo” de Il Teatro Degli Orrori, che di migranti, violenza, guerra e… assedi, me ne parla con la poesia di Majakovskij e uno schiaffo di un padre un po’ ignorante.
Per me un’occasione un po’ sprecata, di una mente sinistroide che vorrebbe dire grandi cose, ma ha la bocca piena.
CM
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