In occasione dell’uscita del suo ultimo singolo per Formica Dischi, abbiamo fatto qualche domanda all’artista capitolino Marāsma, che nella sua “Mi basterebbe una notte” sa fondere con efficacia tormento generazionale e voglia di poesia tipica di una scuola che non smette di ammiccare al cantautorato.
Ciao Marāsma, piacere di averti sulle nostre colonne. Allora, partiamo dal tuo nome d’arte: come mai hai scelto proprio “Marāsma”? Che significato ha, per te, questa parola?
Ciao, piacere mio! La scelta del nome si riferisce allo stato confusionale emotivo che tutti prima o poi siamo costretti a vivere e metabolizzare, la risposta al caos è stata ed è la musica.
Come ti avvicini alla musica? Sei giovanissimo, classe ’99, ma di cose ne hai già fatte eccome in questi anni.
La musica è stata sempre presente fin da quando ero piccolo, suonavo ogni cosa che mi circondava e soprattutto mi divertivo ad imitare in cameretta i cantanti con i quali sono cresciuto, da Rino Gaetano e Vasco Rossi fino a Mick Jagger. Ho iniziato a studiare chitarra a 8 anni, quando i miei compagni di classe delle elementari mi regalarono una piccola chitarra che ancora conservo con gelosia. Ecco, e arriviamo così alla tua discografia: l’esordio con “Falene” di certo parte il piede giusto.
Tra l’altro, il brano ha una genesi particolare: ce la vuoi raccontare?
Il brano è stato scritto al Reset Festival di Torino sotto la supervisione di Levante, Ale Bavo e Valentina Farinaccio. Lavorare con artisti di fama nazionale è stata un’esperienza fantastica e formativa che mi ha permesso di crescere musicalmente e personalmente. 4 giorni di musica a 360 gradi vissuti in un ambiente unico e stimolante.
Poi, oggi, torni al fianco di Formica Dischi con “Mi basterebbe una notte”, brano che a suo modo racconta un senso di immobilismo che, in un modo o nell’altro, sembra rispecchiare il temperamento di un’intera generazione. Ricordi il momento in cui hai scritto il brano, com’è nato?
Il brano nasce la scorsa estate ed è stato scritto a 4 mani con Francesco, bassista e cofondatore del progetto. La canzone, attraverso il racconto di una relazione arrivata al capolinea, parla della resa emotiva di una generazione, quando anche un sassolino nelle scarpe pesa come un macigno e ci impedisce di camminare. Vedendo ogni certezza crollarci addosso ci buttiamo stanchi morti sul letto.
Ma basterà una notte per risolvere qualsiasi cosa? Abbiamo parlato prima di “generazione”: una parola impegnativa, che in qualche modo racconta una collettività che non si riesce efficacemente a fotografare, soprattutto se parliamo di Gen Z. Ecco, tu ti senti di appartenere a qualcosa, ad una “generazione” con precise caratteristiche e comuni tormenti?
Assolutamente sì. Faccio parte della generazione dell’incertezza, del tempo determinato, del dare il massimo per accontentarsi del minimo. Generazione Z, ultima lettera dell’alfabeto, ma come dice il detto, e me lo auguro, “gli ultimi saranno i primi!”
E della scena contemporanea, invece, cosa ne pensi? Che direzione sta prendendo, ai tuoi occhi, il nuovo mercato musicale?
E’ davvero un momento incoraggiante, da un lato c’è una rinascita del cantautorato italiano che qualche anno fa sembrava aver terminato il proprio ciclo dopo i giganti Dalla, De Andrè, De Gregori, Battisti ecc.. e che ora ha ripreso forma e un nuovo linguaggio con Brunori SAS, Motta, Colapesce, Andrea Laszlo De Simone, Calcutta e molti altri. Dall’altro lato ci sono sempre più realtà come festival, club e manifestazioni che incoraggiano la crescita di nuovi gruppi emergenti.
Salutiamoci, a questo punto, con un augurio: quello che preferisci tu! Speriamo di vederci a Sanremo!
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